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di Francesco Monopoli*

brindisireport.it, 4 marzo 2024

Sovraffollamento, carenza di prospettive concrete di reinserimento sociale dopo la espiazione della pena, strutture obsolete, difficoltà oggettive riscontrate nell’espletamento della propria attività dal personale sanitario e dalla polizia penitenziaria. Sono queste alcune delle criticità che affliggono gravemente l’attuale sistema penitenziario italiano. Con il suicidio avvenuto questa notte nel penitenziario Dogaia di Prato ammonta a ventitre il numero totale delle vite perdute dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Un quadro allarmante caratterizzato da numeri degni di un vero e proprio stillicidio, se solo si consideri che nell’anno precedente altri sessantanove soggetti reclusi hanno tranciato tragicamente quel sottile filo conduttore che legava il loro stato detentivo alla speranza di riconquistare la libertà privandosi, cosi, del bene più prezioso, la propria vita.

Le cause di tali gesti estremi potrebbero essere innumerevoli ed andrebbero sicuramente analizzate approfondendo lo specifico profilo di ogni detenuto ma è ormai di solare evidenza che il minimo denominatore comune di ogni singola tragedia è l’insofferenza verso un sistema che ad oggi sta implodendo malgrado il complesso e delicato lavoro che quotidianamente svolgono gli operatori e la polizia penitenziaria.

Occorre ricordare che la espiazione della pena ha una funzione rieducativa che trova, tra l’altro, il suo riconoscimento espresso proprio nella nostra Costituzione al terzo comma dell'articolo 27, il quale sancisce espressamente che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”

Al fine di poter realmente avere contezza di quanto, ad oggi, gli sforzi dello Stato tesi alla riabilitazione siano stati timidi e poco significativi, occorre considerare che ogni detenuto ha un costo per la comunità civile pari a circa centotrentasette euro al giorno delle quali, si stima, che solo una minima parte viene effettivamente destinata alle attività rieducative ed al reinserimento sociale dei soggetti reclusi. È evidente che le censure dei giudici europei, susseguitesi nel corso degli ultimi anni, attraverso le quali l’Italia è stata condannata per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo (che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti), non hanno evidentemente sortito gli effetti sperati.

Sono infatti trascorsi circa quindici anni da quando il nostro Paese veniva condannato, per la prima volta, per la violazione dell’articolo 3 Cedu a causa del sovraffollamento carcerario (sentenza Sulejmanovic c. Italia, ric. N. 22635/2003) e undici anni sono ormai trascorsi dalla nota sentenza Torreggiani. Con le predette pronunce la Corte europea dei diritti dell’uomo oltre ad aver accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione disponeva che il nostro Paese si dotasse, entro un anno dal momento in cui le sentenze sarebbero divenute definitive, “di un ricorso o di un insieme di ricorsi interni effettivi, idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente nei casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi della Convenzione, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte”.

In buona sostanza i giudici di Strasburgo affermavano che la carcerazione non può e non deve fare perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato.

In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente la detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.

Pertanto il legislatore italiano adottava, compulsato dalla Corte Europea, alcune misure allo scopo di ridurre la popolazione carceraria, contenute nel decreto legge n. 146/2013, ma perdeva l’occasione di porre le basi per una vera e propria riforma sostanziale dell’ordinamento penitenziario.

Orbene i dati statistici odierni forniscono numeri allarmanti che inducono, ragionevolmente, a pensare che le misure adottate dal legislatore italiano sino ad oggi hanno rappresentato, in buona sostanza, dei meri adempimenti di obblighi di fare in esecuzione a quanto imposto dai giudici europei: misure rivelatesi sicuramente utili nell’immediato ma forse non adeguate nel lungo periodo. Occorre ricordare anche che garantire un idoneo trattamento rieducativo dei condannati in Italia significherebbe anche contrastare l’alto tasso di recidiva che si registra nel nostro Paese. Molti studiosi infatti hanno ritenuto che la recidiva sia proprio figlia di un inidoneo trattamento rieducativo. Parafrasando Voltaire se il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, è evidente che oggi la trattazione dell’emergenza del sistema penitenziario non è più differibile. Ce lo chiede l’Europa ma soprattutto la nostra coscienza civica.

*Responsabile Regione Puglia Onac (Osservatorio Carceri Aiga), già responsabile nazionale dipartimento ordinamento penitenziario Aiga