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di Rosita Rijtano

lavialibera.it, 22 aprile 2024

“Uno Stato che continua a fallire nella cura dei più deboli non ha ragione di essere”, dice, “immaginare alternative al carcere si può”. Nelle carceri “i suicidi non sono un atto individualistico. Sono il riflesso di questo sistema insostenibile, che purtroppo la stretta securitaria del governo continuerà ad alimentare”. Così la senatrice Ilaria Cucchi commenta il XX dossier annuale dell’associazione dei diritti dei detenuti Antigone. Un report che nel 2024 punta i riflettori sui numeri delle morti volontarie e sulla sofferenza psichica negli istituti penitenziari, definita “emergenza continua”.

Sul tema la senatrice era intervenuta nei mesi scorsi, dopo la morte di Matteo Concetti, un ragazzo di 23 che si è tolto la vita il 5 gennaio 2024 nel carcere di Montacuto (An): era detenuto per reati contro il patrimonio e soffriva di problemi psichiatrici. La madre aveva indirizzato a Cucchi una lettera il giorno prima del suicidio, scrivendole: “La prego di aiutarmi, mio figlio vuole morire. Ha bisogno di aiuto e in carcere non viene assistito”. “Quando ho sentito sua mamma, dopo la sua morte, al telefono, non sono riuscita a dire altro se non che mi dispiace e che farò il possibile affinché vengano accertate le responsabilità della sua morte”, aveva dichiarato l’onorevole sui propri canali social subito dopo.

Senatrice Cucchi, lei ha sofferto per non essere riuscita a salvare Matteo. La sua storia può avere ancora giustizia e in che modo?

La storia di Matteo è l’emblema del fallimento dello Stato, che nei suoi confronti come di tanti altri si rivela oggi totalmente irresponsabile. Penso che la giustizia sia la riaffermazione di un diritto prima negato. Il diritto che è stato negato a Matteo purtroppo nessuno glielo riporterà indietro. Quello però che può fare lo Stato è riaffermare il diritto, a lui negato, a tutti quelli che si trovano, oggi, nella condizione in cui ci ha lasciato Matteo. Può e deve farlo, perché uno Stato che continua a fallire nella cura dei più deboli è uno Stato che non ha ragione di essere.

Matteo non è il solo. Il carcere è il posto giusto per chi soffre di patologie psichiatriche e dipendenze?

No, il carcere non è il posto giusto, tutto il contrario. Lo riconosce anche il nostro ordinamento, che per esempio prevede le Rems come strutture alternative proprio per chi ha una sofferenza non curabile dietro le sbarre. Però siamo di fronte a un paradosso. Da una parte, lo Stato stabilisce che il carcere non è il posto giusto. Dall’altra, non mette le risorse adeguate per superare il problema che lui stesso ha individuato, finendo per rinchiudere le vulnerabilità dove non dovrebbero stare.

In questi ultimi anni c’è stato un boom di suicidi. Come lo spiega?

Questo è l’esito del discorso precedente. Quando il carcere invece di essere un luogo di rieducazione e una scuola per il ritorno alla vita fuori le sbarre, diventa un luogo di punizione e repressione, l’unica cosa che riesce a fare è peggiorare la salute, mentale e fisica delle persone che vi sono costrette. I suicidi non sono un atto individualistico. Sono il riflesso di questo sistema insostenibile, che purtroppo la stretta securitaria del governo continuerà ad alimentare.

Nelle carceri è documentato l’abuso di psicofarmaci, di contro il numero di psicologi e psichiatri è insufficiente. Secondo lei la sofferenza psichica è adeguatamente considerata e trattata nelle carceri?

No e non può esserlo. Però voglio essere chiara su questo punto. Il problema non è legato alle mancanze di attenzione nei singoli istituti penitenziari. Certo, ci sono anche quelle, in alcuni casi molto gravi, che portano gli psicofarmaci a diventare l’irresponsabile sostituto di una politica della cura, umana. Ma il problema è proprio alla radice dell’istituto penitenziario, che per come è congegnato non è in condizione di offrire pieno supporto a queste persone.

Quanto pesano inoltre le condizioni delle strutture e la “noia”?

Tantissimo. Vivere in un posto che non rispetta le tue esigenze è un’esperienza infernale, specie se sei costretto a rimanerci per un periodo prolungato. Non parlerei di noia, però, perché il problema non è riempire il tempo ma trovare una prospettiva di realizzazione. Se mancano le opportunità per immaginarsi liberi, è proprio il significato della vita a disperdersi.

Il governo Meloni vuole introdurre per i detenuti il reato di rivolta penitenziaria. Che ne pensa?

Penso che quella del governo Meloni sia una battaglia dal lato sbagliato della storia. Il malcontento cresce, nelle carceri come fuori, proprio perché mancano le opportunità e una concreta prospettiva per un futuro più giusto. Rispondere con un’ulteriore morsa repressiva non porterà a niente di costruttivo, né per i detenuti né per le nostre istituzioni, che già oggi stanno perdendo la fiducia delle persone che dovrebbero rappresentare.

C’è poi il tema delle violenze. I casi da nord a sud si ripetono. “Mele marce” o un problema culturale?

Non mi ha mai convinto la retorica delle mele marce. Credo che ormai la storia ci abbia messo davanti a tanti di quei casi da poter parlare di un vero problema culturale, in cui lo Stato diventa la rappresentazione dell’uomo forte, e viceversa, che crede di essere legittimato a imporre la propria volontà con la violenza. Questo non significa però che la brutalità degli agenti sia da dare per scontata, né che le cose non possano migliorare.

Nelle violenze, la catena di comando pesa?

Non è un problema solo della catena di comando. Allo stesso tempo non possiamo dimenticare come in tanti episodi siano stati proprio i cosiddetti “ordini dall’alto” a far partire le violazioni. Penso che la verità sia nel mezzo: lo Stato deve trovare il coraggio di processarsi due volte, la prima sul piano giuridico e la seconda su quello culturale. Le istituzioni dovrebbero insegnare non solo agli agenti, ma a tutti, che la gerarchia può sempre essere messa in discussione. La democrazia è un metodo dal quale le forze dell’ordine non devono essere escluse.

Nel mirino del governo c’è anche l’abolizione del reato di tortura. Come spiega questa avversione e quanto, invece, è importante salvaguardarlo?

È un’avversione che si comprende facilmente proprio pensando alla propaganda dell’uomo forte. Il ragionamento della destra, almeno di una parte, è questo: se la cultura mi dice che la violenza è la strada più efficace per la risoluzione dei conflitti, perché dovrei pormi dei limiti? Si tratta di una deriva pericolosissima, perché in gioco ci sono i diritti di tutti e il significato stesso della democrazia. Che non può in nessun modo legittimare questo messaggio. Dobbiamo pensare che l’introduzione di questo reato nel nostro ordinamento è molto recente, arrivata peraltro dopo una lunga serie di “richiami” da parte delle organizzazioni internazionali e non governative a seguito di fatti gravissimi. La legge ha bisogno di tempo per essere metabolizzata, soprattutto dove esistono forti spinte contrarie al messaggio che questa porta con sé. Anche per questo credo che la campagna di diversi esponenti del governo, volta a smantellare il reato, debba essere contrastata con tutte le nostre forze, dell’opposizione e della società civile.

Siamo abituati a una visione che schiera agenti contro detenuti. Eppure, benché in altro modo, e con altri ruoli, a soffrire il sistema penitenziario sono anche gli agenti. Il fatto che il numero di suicidi tra loro sia alto è indicativo. Che ne pensa?

Lo dico spesso, il carcere oggi è un luogo, anzi un non luogo, terribile per tutte le persone costrette a viverlo, da entrambe le prospettive. Al di qua e al di là delle sbarre, quindi certamente anche per gli agenti. Penso che chiunque, di fronte a una violazione costante dei diritti e a contatto ogni giorno con sofferenze terribili, che non possono essere curate adeguatamente in quelle condizioni, sia portato a maturare su di sé i sintomi di questo fallimento totale.

Crede che la polizia penitenziaria sia adeguatamente formata per fronteggiare situazioni critiche?

Penso che le ore di formazione debbano aumentare, ma soprattutto deve cambiare il tipo di approccio da parte dell’istituzione che rappresentano. Il carcere non può essere lo spazio in cui si ritrovano a convivere tutte le vulnerabilità, tutte le situazioni critiche della nostra società. Altrimenti, la crisi non rappresenta un episodio sporadico, ma una normalità impossibile da gestire. Per quanto una persona possa essere formata.

In un numero delavialibera abbiamo parlato del fallimento delle carceri. Immaginare un mondo senza è un’utopia?

Ho iniziato a fare attività politica nelle istituzioni solo pochi anni fa, ma alle mie spalle ho un percorso politico più lungo. Quello che mi sono sempre detta è che l’utopia, se può essere immaginata, può essere anche realizzata, e deve essere questa la molla che spinge chi lotta per i diritti. Oggi c’è un problema di immaginazione, a sinistra, che però ha conseguenze molto pratiche, perché ci spinge a soffermarci sull’ordine del giorno, quando dovremmo fare una discussione, ampia e partecipata, sulle vere alternative. Tra cui quella al carcere.