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di Tommaso Labate

Corriere della Sera, 11 agosto 2024

Il deputato di Azione, figlio del liberale Raffaele Costa, sottosegretario alla Giustizia dopo il caso Moro. Sull’ultima trovata garantista, il divieto di custodia cautelare per gli incensurati, s’è ritrovato contro anche un pezzo del suo partito, quelli di Azione della Liguria politicamente armati contro Giovanni Toti. “Ma comunque è una costante, per un garantista in politica al giorno d’oggi è sempre così. Ci sono i partiti garantisti, quelli che non lo sono affatto, quelli come la Lega di Salvini che lo sono a corrente alternata; ma anche nei primi, quando capita, l’occasione di attaccare l’avversario indagato o arrestato viene purtroppo considerata troppo ghiotta per non sfruttarla a proprio vantaggio”.

Luciano Ligabue canterebbe che non è tempo per lui. Eppure l’immarcescibile garantismo di Enrico Costa lo accompagna nella politica attiva dal 2006 attraverso cinque legislature, qualche viaggio di andata e ritorno da Forza Italia, due incarichi da ministro in governi sempre guidati da un pd (Renzi e Gentiloni), un passaggio nel partito di Angelino Alfano, uno in Noi con l’Italia, qualche domiciliazione saltuaria al Gruppo misto, fino a quella sorta di residenza stabile che per lui è diventata Azione, almeno fino a quando qualche settimana fa non ha abbandonato la vicesegreteria.

Gli avversari lo considerano una sorta di nemico incallito di ogni pubblico ministero (“Sbagliato, io penso che la maggioranza di quelli italiani siano ottimi giudici”), gli amici faticano qualche volta a seguirlo nelle vie elettoralmente meno spendibili delle sue proposte di legge (“Il garantismo purtroppo non è popolare”), tutti se lo immaginano come perennemente impegnato nella lettura di testi come Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (“Sto guardando in streaming Bosch, serie tv decisamente poco garantista”), nessuno che sia mai chiesto da dove arrivi questa sorta di inclinazione, diventata per Costa una sorta di marchio di fabbrica. La risposta, in parte, è nella modestissima 127 gialla assegnata alla scorta del padre, il liberale Raffaele, che subito dopo il Caso Moro era stato sottosegretario alla Giustizia. “È uno dei miei ricordi d’infanzia. Da sottosegretario con delega alle Carceri, mio papà aveva una posizione decisamente molto morbida coi terroristi reclusi. Proprio per questo, perché mostrava il volto non cattivo dello Stato, era diventato un obiettivo delle Brigate rosse”.

A Mondovì, dove torna da Roma tutti i fine settimana, il futuro segretario del Partito liberale italiano, Raffaele Costa, consegna al figlio Enrico il comandamento numero uno per garantirsi non tanto la leadership, quanto la longevità politica: “Meglio sapere tutto di poco che poco di tutto”. Il poco a cui Costa junior capita di appassionarsi fino in fondo è la giustizia. Al battesimo in Parlamento, nella legislatura 2006-2008, i berlusconiani lo mandano in commissione Giustizia e lui si attacca giorno e notte a Gaetano Pecorella. “Nella legislatura successiva, quando va in commissione Affari costituzionali perché in odore di candidatura alla Consulta, Pecorella suggerisce a Berlusconi e Ghedini di far fare al sottoscritto il capogruppo in commissione Giustizia. E da lì...”.

Da lì inizia una carriera che lo pone sotto riflettori che si accendono e spengono a intermittenza. E che quando sono accesi, sono accesissimi. Tipo nel 2008, quando Costa diventa il relatore del contestatissimo Lodo Alfano sulla sospensione dei processi a carico delle alte cariche dello Stato, compresi ovviamente quelli di Berlusconi. “Non è un’immunità perché differisce semplicemente un po’ più in là processi che verranno comunque celebrati”, argomenta lui. La Consulta boccerà l’intero impianto.

Oggi combatte perché gli incensurati sotto inchiesta non vadano mai in carcere prima di una condanna. “Dal 1992 a oggi lo Stato italiano ha pagato 874 milioni di euro di risarcimenti solo per ingiusta detenzione. E nessuno dei pm che hanno sbagliato ha mai pagato per questo”, sottolinea Costa. Tra i sogni nel cassetto, dice, “far sì che il nostro sia un Paese che restituisce alla vita normale uno che era entrato ingiustamente in un carcere nelle stesse identiche condizioni in cui stava prima di incappare in un errore giudiziario”. Ma forse non ci crede neanche lui. Forse.