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di Enzo Musolino

L’Unità, 8 ottobre 2023

Ho visitato la prigione di Reggio Calabria, ho sentito racconti di caccia ai topi, di svenimenti per il caldo, di pastiglie per anestetizzare l’esistenza. Ho visto volti di giovanissimi che non studieranno né lavoreranno. Il crimine è solo tra i carcerati?

L’ultima battaglia di Pannella è stata quella per il “diritto alla conoscenza”. Alla fine di settembre, con Nessuno tocchi Caino e la Camera Penale, sono entrato nel Carcere “San Pietro” di Reggio Calabria. Ho visto poco più che bambine dietro le sbarre (come definire diversamente una ventenne che condivide la cella con la mamma, entrambe condannate per fatti di droga?), donne anziane di etnia Rom, di quasi settant’anni, che lamentano scompensi cardiaci cronici.

Ho ascoltato racconti di caccia ai topi dentro la cella a otto letti, e di svenimenti per caldo dentro un buco per due. Mi hanno detto di medici e sanitari alle prese con ferri vecchi e di pastiglie contro l’ansia prescritte quasi a tutti per anestetizzare l’esistenza. Sono entrato in aule scolastiche a quattro posti, dedicate alla sola alfabetizzazione, mentre sarebbe necessaria l’istruzione superiore.

In mezzo a tutto questo, insomma, mi sembra che l’ultima battaglia di Pannella vada declinata diversamente o, meglio, che vada compresa in un senso davvero radicale, un senso già presente nell’intuizione del leader libertario.

È il “dovere alla conoscenza” che va attivato nell’intimo dei cittadini italiani. In carcere si “deve” entrare! È d’obbligo conoscerlo per comprenderlo davvero, per sentir raccontare, ad esempio, di piogge che riattivano l’odore ferroso delle sbarre arrugginite e che impedisce il sonno, per osservare i volti di giovanissimi che per cinque o sei anni non studieranno, non lavoreranno, non miglioreranno, e che poltriranno fino rovinarsi cervello e fisico in una struttura “concentrazionaria” che non ha alcuna finalità civile, rimanendo funzionale solo alla propria sopravvivenza istituzionale.

Il crimine è solo tra i carcerati? Non si alligna anche nelle pieghe di un sistema che si arrotola su sé stesso senza davvero svolgersi? Non è criminale che tutto si riduca alla burocrazia securitaria della privazione della libertà che non ripara il male, che non sana, che - al più - diviene vendetta e violenza di Stato? Il carcere è questo! Pannella lo sapeva e perciò ha sempre provocato le coscienze alla ribellione, al dovere della verità di fronte a tante bugie, al coraggio della “riforma” radicale di una Istituzione in sé chiusa, per propria natura “casa di sofferenza” e, per tanto, inaccettabile per i fautori di vero progresso e crescita.

Basta ristrutturarle le carceri, costruirne di nuove, sanificare le celle dopo l’ingresso del terzo o quarto topo? Basta passare da otto letti a cinque, sotto i 45° d’estate a Reggio Calabria? L’uomo è più del fatto brutto che lo ha attraversato, inchiodandolo all’evento. L’uomo, in quanto essente libero, è possibilità infinita di atti, di persuasione, di salvezza.

Non c’è uomo che sia cattivo del tutto, ci ha insegnato Aldo Capitini dietro le sbarre fasciste delle Murate a Firenze. La dovremmo davvero approfondire questa verità, questo comune destino di errore e riscatto. La dovremmo introitare questa lezione “aperta” all’altro, prima di gioire per la morte di questo o quel mafioso o per l’arresto di questo o di quello scafista/mostrificato, o del solito zingaro, o drogato, o “povero diavolo”. Se non la pensassimo così, dovremmo allora essere conseguenziali “in diritto” e non solo “di fatto” (con la violazione surrettizia delle garanzie costituzionali), si dovrebbe cancellare per “Legge” il volto del ristretto, si dovrebbe condannare come eversivo il “tu devi” di Pannella alle prese con la non menzogna e andrebbero condannate come improprie anche le parole di Cristo che da duemila anni ci invita a visitarlo in carcere, ad abbandonare i pregiudizi verso i condannati dalla Storia, verso i cattivi per principio, i reietti.

Si dovrebbe avere il coraggio di scriverlo nel Codice: il fine del carcere è la morte per pena, per rinunce, per oblio di speranza e senso. Pensare ed agire per il superamento del carcere non è un’utopia, è l’unica strada sensata che si abbia davvero innanzi. È un moto di coscienza che afferma, qui ed ora, ad esempio con l’iscrizione a Nessuno Tocchi Caino, con le battaglie contro l’affollamento e il trattamento penitenziario degradante, una fede in “Altro” rispetto ai poteri di questo mondo.

Perché ammazzando Caino di carcere, non si afferma Abele ma un “carnefice” più terribile, senza volto e, quindi, senza responsabilità e possibilità di riscatto: l’Istituzione di cemento e ferro, infarcita di donne e uomini (carcerati o carcerieri poco importa) che passeggiano in tondo, giorno dopo giorno, senza farci più attenzione, sotto un cartello che dice “pericolo di crollo”, proprio come il cartello presente al “San Pietro” di Reggio, come in tutte le carceri italiane.