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di Francesca Scopelliti*

Il Riformista, 17 giugno 2022

Enzo Tortora, come Dante, è entrato nell’Inferno del carcere, non come visitatore, non come scrittore bensì come dannato: ma lui non è violento, non è fraudolento, non è iracondo, non è lussurioso, non è avaro o goloso.

Lui non è colpevole, come invece sono quei due magistrati che dopo essere stati collocati sul piedistallo della popolarità, dopo essere stati definiti i Maradona del diritto nell’anno in cui il “Pibe d’oro” aveva portato lo scudetto al Napoli, dopo aver goduto dei riflettori più insaziabili, non possono perdere la faccia. Meglio fottere Tortora. E così è stato.

“Nel mezzo del cammin di sua vita si ritrovò per una selva oscura chè la diritta via (altri) avean smarrito ahi quanto a dir qual era è cosa dura”. Versi memorabili che ben si arrangiano con quel brutto fattaccio della procura napoletana, dove a entrare nell’Inferno è stato Tortora ma a perdere la diritta via o meglio la via del diritto, sono i magistrati napoletani e dove quelle tre belve incontrate da Dante non sono sufficienti - per numero e per ferocia - a rappresentare la barbarie di tutti gli attori in scena, dai magistrati (Lucio Di Pietro, Felice Di Persia, Luigi Sansone, Diego Marmo, Armando Olivares) che con protervia e fraudolenza perseguono un innocente sapendo quel che fanno, a quei famelici giornalisti che, per benevolenza nei confronti della procura, “divagano” sulla pelle di un uomo perbene, a quei farabutti collaboratori di giustizia che per un patto scellerato con la procura napoletana recitano una sceneggiatura scritta da altri.

Enzo Tortora, come Dante, è entrato nell’Inferno del carcere, non come visitatore, non come scrittore bensì come dannato: ma lui non è violento, non è fraudolento, non è iracondo, non è lussurioso, non è avaro o goloso. Lui non è colpevole, come invece sono quei due magistrati che dopo essere stati collocati sul piedistallo della popolarità, dopo essere stati definiti i Maradona del diritto nell’anno in cui il “Pibe d’oro” aveva portato lo scudetto al Napoli, dopo aver goduto dei riflettori più insaziabili, non possono perdere la faccia. Meglio fottere Tortora. E così è stato.

Come Dante anche Tortora ha il suo Virgilio, la sua guida, la sua forza: non è un maestro o un autore di classici ma semplicemente se stesso, la sua innocenza, la sua moralità, la sua dignità, la sua inconfutabile onestà intellettuale, culturale e sociale. Ma è stata dura. E nelle sue lettere Enzo ripete spesso la parola “inferno” proprio per esprimere la grande sofferenza: “...travasato dall’inferno di Roma a questo più vivibile (ma non meno duro, intollerabile) carcere, perfino il mio fisico ha dovuto riadattarsi.... credimi, qui nessuno può star bene. Soprattutto un innocente...”, “ho parlato con i legali. Occorre accettare il gioco. E sarà lungo. All’inferno ci sono: non vedo ancora il biglietto di ritorno”.

Come nel viaggio dantesco, Enzo racconta di dannati che incontra in questa sua infernale vita carceraria e lo fa con la stessa compassione del sommo poeta: “Oggi all’aria (un gelo polare) parlavo con un ragazzo che aspetta la sentenza: il pm ha chiesto l’ergastolo. È un “politico”. Abbiamo parlato un poco: in questo viaggio all’inferno ho conosciuto, e, se non capito, visto, da vicino, creature di ogni sorta. Quello che mi spezza il cuore sono i ragazzi. “Politici”, figli di una sanguinaria illusione”. “L’altro giorno è arrivato un vecchio di 84 anni.

S’erano dimenticati che doveva, vent’anni fa (!), scontare ancora un anno di colonia penale! No, Francesca. Non comprerai mai più un libro. Sentirai solo quello che ti racconterò io. I libri non esistono, sono carta e sogni. Cioè niente, davanti alla verità, alla realtà”. E ancora: “Mi hanno messo come vicino di cella un imbecille presuntuoso, che vive in calzoni corti, ha gli occhiali, ha strangolato una vecchia professoressa dalla quale si faceva mantenere, e ha vissuto trenta giorni col cadavere in una cassa, in casa. Ti stupisci? Te l’ho detto: non comprerai mai più un libro in vita tua”.

“A Regina Coeli prendevo l’aria con un ragazzo calabrese (venticinque anni per omicidio), malato, e gli scrivevo io le domande di grazia. Si chiamava A. (non farò mai nomi) e non sapeva il significato del suo nome. Allora gliel’ho spiegato, e così mi è divenuto caro passeggiare in quel torrido pozzo solo perché lui era nato dove tu sei nata. Ne ho conosciuto un altro, un boss, ma di quelli tremendi, e con me era un agnellino, e mi diceva (mi ha anche mandato un telegramma, qui) che non capiva il mio tifo per la Calabria. Posso garantirti che ho incontrato, all’inferno, un rispetto e un amore sconosciuti fuori.”

Perché, citando ancora Dante, la galera è “amara che poco più è morte”, ancor più se vissuta da innocente. Tutto ha inizio il 17 giugno 1983: Enzo Tortora viene arrestato con accuse gravi, appartenenza alla Nco e spaccio di stupefacenti, ma senza uno straccio di prova. Non una intercettazione, una indagine patrimoniale fiscale o quant’altro. Nulla, solo la parola di due pentiti: Pasquale Barra e Giovanni Pandico. Il primo, definito O’ Animale, e il secondo “paranoico, schizofrenico, con smanie di protagonismo”. Su queste due “colonne” i magistrati napoletani costruiscono il maxi blitz contro la Camorra di Raffaele Cutolo con 800 arresti di cui 200 omonimi: un castello di carte, come disse Leonardo Sciascia, dal quale non si poteva togliere la carta Tortora per non far cadere tutto il resto. “E così una vita come la mia, tutta piena di una tensione morale addirittura puritana, stoica, di ferro, viene prostituita a parabola di malfattore”, disse Enzo.

Dopo sette giorni dall’arresto, il primo confronto con i due procuratori Felice Di Persia e Lucio Di Pietro: “è mai stato a Ottaviano?”, “ha mai conosciuto questa donna?”, e infine, con visibile soddisfacimento, una lettera che parla di “roba”, mai restituita né saldata... viene dal carcere di Pianosa ed è firmata da tale Domenico Barbaro, camorrista, ma scritta dal suo compagno di cella Giovanni Pandico. È la storia dei famosi centrini inviati a Portobello e smarriti. Raffaele della Valle, con grande sollievo produce a sua volta una lettera di risposta nella quale Enzo si rammaricava della perdita dei centrini e comunicava al detenuto Barbaro un risarcimento di 800mila lire. A quel punto il cancelliere attonito smette di scrivere e i due magistrati di parlare, Enzo e Raffaele, con uno sguardo, pensano di aver risolto l’equivoco. E in effetti, se quei due magistrati fossero stati onesti avrebbero chiesto scusa… e invece no. Attaccato al nome di Tortora c’è la credibilità dell’intera inchiesta. La credibilità del loro operato. Se cadesse Tortora si spegnerebbero gli applausi ai Maradona del diritto, le copertine dei settimanali, le interviste a quei tutori della legge che non “guardano in faccia nessuno”. E quindi Tortora deve essere colpevole a qualunque costo: inizia così, il 23 giugno 1983, la brutta storia di un crimine giudiziario.

Per renderlo colpevole “a qualunque costo” le prove vengono sostituite dalle dichiarazioni dei cosiddetti collaboratori di giustizia che al processo diventano 18, diciotto falsità rivestite di verità “storica” in quanto “concordanti”, scriverà il presidente della Corte Luigi Sansone nelle motivazioni della sentenza. In verità sono concordanti perché quei pentiti vivono tutti insieme, a celle aperte, nella caserma dei carabinieri di Napoli. In appello sarà il giudice Michele Morello a smontare il valore probatorio di tutti quei pentiti.

Anche il contributo di una compiacente stampa tesa a creare nell’opinione pubblica il “colpevole” da condannare diventa fondamentale. Gli atti, diceva l’avvocato Della Valle, “vengono depositati in edicola e non in procura”: notizie false e calunniose che puntualmente dopo qualche mese vengono smontate. Per renderlo colpevole “a qualunque costo” necessita un giudice compiacente in grado di sostenere in processo la tesi accusatoria (alla faccia della terzietà del giudice). E questo è Luigi Sansone. Enzo viene condannato a dieci anni di galera in primo grado con una sentenza letta il 17 settembre del 1985 ma scritta già nel giugno 1983 e assolto l’anno dopo in appello con formula piena. Assoluzione confermata poi nell’86 in Cassazione.

La verità ha trionfato ma non per questo “giustizia è stata fatta” perché l’errore giudiziario non è rimediabile, è una cicatrice che non si cancella. Ad Enzo era scoppiata dentro una “bomba al cobalto”, un brutto tumore che lui domina per cinque anni per assolvere a degli impegni irrinunciabili: il riconoscimento della sua estraneità alle accuse, la battaglia insieme a Marco Pannella per la giustizia giusta e per la civiltà delle carceri, il ritorno in TV, al suo pubblico, il referendum sulla responsabilità dei magistrati, un risultato emozionante ma tradito da una timorosa legge inadeguata quanto inapplicata. Un tradimento che Enzo non vive: morirà prima, il 18 maggio 1988. Quel giorno, il suo amico Leonardo Sciascia scrive un emozionante editoriale che si conclude così:

“… Per come potevo, ho poi seguito e incoraggiato la sua battaglia. Una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e con dignità. L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”.

Parole profetiche: il sacrifico di Enzo è una illusione. E se proviamo a rispondere a Tortora “dove eravamo rimasti” beh, possiamo rispondere che siamo caduti nell’ultima bolgia infernale dove il giustizialismo la fa da padrone, con una stampa forcaiola e squadrista che ha in Marco Travaglio la sua migliore espressione, con giudici che affermano che “non ci sono innocenti che vanno in galera ma solo colpevoli che la fanno franca”, e politici che “si adeguano”. Questo è l’inferno che ha vissuto Enzo Tortora, questo è l’inferno che vive il nostro Paese. Il 22 giugno scorso abbiamo avuto una grande occasione: votare 5 quesiti referendari, cinque SÌ che non avrebbero certo risolto tutti i problemi della giustizia ma sarebbero stati un buon inizio. E invece si sono persi, sono stati abbattuti come le case di Kiev. Ha vinto il potere. Quel potere che ha imposto ai media, tutti, Rai in testa, il silenzio stampa. Quel potere che ha ordinato alla politica di boicottare i referendum creando confusione e disinformazione. Quel potere che, come le bombe russe, ha soppresso un fondamentale strumento di democrazia diretta.

Quel potere che si era già manifestato con la pronuncia della Corte Costituzionale. Mala tempora currunt! Per il presente e per il futuro. I garantisti sono stati sconfitti, ma come diceva John Belushi “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”. Una nuova partita, quindi, politico-istituzionale per affermare lo stato di diritto partendo da due correttivi fondamentali: anticipare la pronuncia della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti referendari prima della raccolta firme (non si può tirare lo sciacquone su un milione di firme, come è avvenuto per il quesito sull’eutanasia) e abolire il “quorum” perché in nessun’altra consultazione popolare è previsto quel “tetto” che privilegia una parte a discapito di un’altra. La partita sarà lunga e faticosa, con avversari “potenti” che non rispettano le regole, sarà difficile ma non impossibile. Una partita da giocare, da vincere per poter dire, come Dante, “e quindi uscimmo a riveder le stelle”.

*Presidente Fondazione Enzo Tortora