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di Gian Domenico Caiazza

Il Riformista, 3 marzo 2024

Tecnicamente parlando, la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, assolto dalla Corte di Appello e poi definitivamente in Cassazione, non fu un errore giudiziario, che è solo quello riconosciuto dalla revisione di una sentenza definitiva di condanna. E tuttavia appare assai difficile censurare l’uso di quella locuzione -errore giudiziario- per descrivere quella drammatica vicenda. La ragione è tragicamente semplice: nel nostro Paese, già le sole indagini, rafforzate dall’arresto dell’indagato e dall’inesistente filtraggio della finta udienza preliminare, per non dire poi se validate dalla sentenza di primo grado, hanno la forza definitiva del “giudicato”.

Le vittime dell’errore non errore - È un dato sociale, culturale e soprattutto mediatico ormai acquisito, anche a cagione della irragionevole durata delle indagini e del processo, che rende incomparabilmente più forte l’impatto dell’Accusa sulla eventuale ma assai tardiva sua smentita da parte del Giudice. Perciò, affranchiamo senza remore questo termine dalla sua angusta gabbia tecnica, resa peraltro ormai quasi inviolabile dalla eccezionalità delle sentenze di revisione. I numeri parlano chiaro, con il 50% di assoluzioni in primo grado, più una ulteriore e consistente percentuale di ulteriori riforme in secondo grado, mentre nel frattempo, vita, reputazione e patrimonio delle vittime dell’”errore-non errore” giudiziario sono già state irreparabilmente pregiudicate, quando non distrutte.

Qualità scarsa delle indagini - C’è una spiegazione in tutto ciò? Beh, l’esperienza giudiziaria ci aiuta. Qualità prevalentemente molto scarsa delle indagini, a cominciare dal grado di preparazione media della Polizia giudiziaria; prova scientifica inficiata da consulenti tecnici delle Procure convinti che il proprio compito sia quello di sostenere l’ipotesi accusatoria piuttosto che verificarne preventivamente e severamente la fondatezza; carichi di lavoro insostenibili che pregiudicano il vaglio critico del PM sull’operato della Polizia Giudiziaria, e del GIP/GUP su quello del PM. Ma la più inestirpabile delle cause di questo disastro è la tetragona indisponibilità dei Pubblici Ministeri a riconoscere l’errore, cioè la infondatezza della originaria ipotesi accusatoria. Come se fosse una questione di prestigio professionale, si avvinghiano a quella con tutte le proprie forze, e solo eccezionalmente sono disposti al ripensamento. Ecco perché il caso Tortora, che contiene -come se fosse stato pensato in un laboratorio- tutte queste patologie, ed innanzitutto quest’ultima, è una parabola senza tempo dei mali della nostra giustizia. Enzo “doveva” essere il “venditore di morte” affiliato alla camorra che i PP.MM avevano voluto in ceppi agli occhi del mondo.

Quando la difesa riuscì dopo poche settimane a documentare le ragioni che avevano mosso un calunniatore psicopatico seriale ad accusarlo, era -come dire- troppo tardi. Tutti gli sforzi investigativi furono volti a raccogliere elementi che supportassero quella assurda accusa. Ed ecco l’agenda dell’amante di un boss, dove è annotato un nome che fu letto voluttuosamente per un paio di mesi come quello di Enzo Tortora, e invece era di un tale Enzo Tortòna, commerciante casertano.

Fu tale il disappunto che ancora in dibattimento il Presidente del Tribunale chiedeva severamente al malcapitato di dare certezza sulla titolarità di quella utenza, ricevendo dal teste una risposta consegnata alla leggenda (“Presidè, facit’ o nummero, e vi rispondo”). E poi, l’incredibile grand reunion di “pentiti” nella caserma Pastrengo; e molto altro. Voi ancora pensate che quella fu una clamorosa, eccezionale tragedia? Beh, vi sbagliate. E più presto lo capiremo tutti, meglio sarà.