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di Alessandro Cozzi

ilsussidiario.net, 12 settembre 2022

Con la fine delle norme di sicurezza nelle carceri si torna al regime precedente, fatto di poche telefonate e contatti con i familiari. La prigione è - tra le altre cose - un luogo di paradossi. Di questi giorni infatti nel “pianeta carceri” si può constatare che c’è un sentimento nuovo: il rimpianto per la pandemia. È finito infatti con il 30 agosto ogni “regime speciale” attuato per la pandemia e tutta la vita, “dentro”, torna come prima. Una bella cosa, si potrebbe pensare: era meglio prima, no?

Posizione errata: il “prima” presentava aspetti peggiori del “durante”. Nonostante le regole di comportamento, nonostante le mascherine obbligatorie, nonostante che alcuni si siano effettivamente infettati anche in prigione, pochissimi si sono ammalati.

Quando arrivò e deflagrò la pandemia ovunque ha portato a chiusure, ha causato arresto di attività, ha comportato lo star chiusi e fermi. Ma questa è la norma in galera! Non è cambiato molto per i detenuti, dopo tutto. Sicuramente alcuni disagi: l’interruzione più o meno durevole delle attività; sospeso l’ingresso dei volontari; meno movimento tra le sezioni degli edifici. Si interruppero i colloqui in presenza con i propri familiari, questo è vero, ed è stato un problema.

Però erano state concesse tre telefonate a settimana, portando il monte-minuti di conversazione con i propri cari da dieci a settimana a ben trenta! In più si sono potenziate le connessioni via Skype per sostituire i colloqui, il che ha consentito anche a parenti che abitano molto lontano di rivedere i propri cari detenuti: era un bel miglioramento! E non finiva qui: la Telecom ha fornito numerosi smartphone a tutte le carceri e così alle telefonate normali e al collegamento Skype si aggiungevano le video chiamate con WhatsApp: tre o quattro al mese da quindici minuti!

Occorre considerare per farsi una chiara idea che il regime standard per i detenuti “comuni” (non parliamo di coloro che sono in alta sicurezza) è di avere un massimo di sei ore di colloquio al mese con i propri familiari, più quella telefonata da dieci minuti a settimana. Se ci si prende la briga di far la somma, sono tre giorni all’anno di colloqui, più otto ore di conversazione telefonica, sempre in un anno intero. Non molto, vero? E ora finisce l’emergenza, ora finisce la “chiusura” - concetto che per le prigioni appare davvero comico - e dunque, via tutto!

Si torna a una telefonata da dieci minuti alla settimana, si cancella WhatsApp, pare che rimarrà Skype, ma con limiti e distinguo. Come prima, appunto. Davvero si rimpiange il Covid: quando c’era si sentivano un po’ di più i coniugi, i figli, i genitori, i fratelli. Si vedevano le facce dei familiari, si era in qualche modo più in contatto: benedetto Covid! Non ci resta che contare sul virus delle scimmie, su qualche altra bella pestilenza… dobbiamo metterci tutti a “fare il tifo” - espressione che diventa grottescamente letterale - per un qualche bacillo.

Viene da scherzarci un poco, per non affliggersi troppo. Ma perché lassù in alto, là dove si prendono le decisioni, là dove si amministra, non comprendono che lasciar parlare un detenuto con la propria famiglia una o due volte in più non riduce la durata della pena, non è “allarme sociale”, non è un vituperato sconto facile? Che non c’è poi così tanto di terribile se un detenuto può vedere il viso della moglie, della mamma, o dei suoi bambini per dieci minuti ogni tanto? Anzi, sarebbe normale.