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di Viola Giannoli

La Repubblica, 19 settembre 2024

Intervista allo scrittore, professore alle scuole superiori: “Ciò non significa che, di fronte al reato, dobbiamo lasciar correre. Ma nel momento in cui puniamo abbiamo già perso”. “Rispondere all’inquietudine dei giovani inasprendo le pene non servirà a niente”. Parola di Eraldo Affinati, scrittore e appassionato docente, immerso quanto più tempo possibile tra i suoi studenti, compresi quelli (pochi) che contestano e che rischiano di pagare a caro prezzo anche il dissenso pacifico.

Il disegno di legge approvato alla Camera punisce con la reclusione i sit-in e i blocchi stradali di cui spesso sono protagonisti i giovanissimi in rivolta per l’istruzione o per l’ambiente, lei cosa ne pensa?

“Credo che la repressione di queste manifestazioni rischi di esacerbarle. Per evitare che si arrivi allo scontro, bisognerebbe agire in modo preventivo: lo diceva don Giovanni Bosco ai suoi tempi, ma lo pensano ancora oggi tanti educatori alle prese con ragazzi difficili. Ciò non significa che, di fronte al reato, dobbiamo lasciar correre. Ma, per come la vedo io, nel momento in cui puniamo, abbiamo già perso”.

Si criminalizza la protesta. Ma mobilitarsi, appassionarsi a una causa, uscire dai social e scendere in piazza non fa parte, secondo lei, anche del percorso di crescita dei ragazzi?

“Certo, i ragazzi hanno bisogno di uno spazio dialettico, inteso come un avversario con cui misurarsi, altrimenti non possono crescere. Il problema è che molti adulti si limitano a indicare i precetti che i giovani devono rispettare, invece di incarnarli”.

Reprimendo del tutto il conflitto sociale democratico, si rischia di sottrarsi a un confronto che per quanto aspro può essere sano?

“Sì, perché l’esperienza della realtà non possa attraverso una vera prova: sui social, ad esempio, si ha l’impressione di poter commettere un danno senza pagare il prezzo del risarcimento. Questo per un giovane è deleterio. Mancano i modelli di riferimento: un adolescente di oggi, in potenziale contatto col mondo intero, a me sembra molto più solo rispetto al passato”.

Lei ha scritto due libri su Don Milani che è stato anche ispiratore di alcuni movimenti di contestazione studentesca. C’è una lezione, in questo contesto, da trarre da quell’insegnamento?

“Don Milani, contrariamente a quanto molti pensano, era tutt’altro che permissivo. Spesso si rivelava severo e intransigente, pur essendo dolcissimo. Era amico e maestro: condivideva le passioni e gli entusiasmi dei suoi scolari senza temere di perdere il loro consenso: anzi spesso li sfidava, sapendo ehe educare significa ferirsi”.

Ma perché il dissenso fa così paura oggi?

“Dopo la caduta, benefica, delle ideologie, siamo diventati fragili e insicuri, schiavi dei risultati che vorremmo raggiungere. I ragazzi più carichi di energia scoprono questa nostra vulnerabilità: ecco perché rispondere alla loro inquietudine inasprendo le pene non servirà a niente. Guardiamo cosa sta succedendo nelle carceri minorili: è come un fuoco che divampa”.

Crede che la deriva securitaria possa diventare una deriva autoritaria?

“Spero di no perché credo nella scuola: l’unica zona di resistenza etica presente nel Paese, grazie al contributo quotidiano di tanti insegnanti che, rimboccandosi le maniche, fanno una rivoluzione al giorno: pochi sanno cosa vuol dire oggi entrare in un’aula di venticinque alunni cercando di far brillare i loro occhi spenti”.