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di Ignazio Juan Patrone*

Il Riformista, 16 marzo 2022

La Camera dei deputati si appresta ad approvare, con una larga maggioranza, il testo unificato delle proposte di legge presentate per la modifica degli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia.

Com’è noto, la legge che verrà emanata dovrà adempiere all’invito rivolto al Parlamento dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 97 del 2021 che ha già accertato, ma non dichiarato, l’incostituzionalità del regime vigente che subordina alla sola collaborazione con la giustizia la concessione di tutti i benefici penitenziari e, fra essi, della liberazione condizionale, concedendo al legislatore termine sino al 10 per approvare una disciplina rispettosa dell’art. 27 della Costituzione.

La prima impressione che si ha leggendo il testo unificato è di delusione: quella imposta dalla Corte costituzionale doveva essere l’occasione per un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea ed illogica di reati, anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. L’attuale articolo 4.bis dell’ordinamento penitenziario è il frutto di scelte legislative prive di logica ed asistematiche, generate dalle sole pulsioni securitarie emergenti da settori della pubblica opinione. L’occasione è andata persa e chissà se e quando di ripresenterà.

Nel dettaglio devono poi fatte alcune specifiche critiche. L’abolizione della concedibilità dei benefici nei casi di collaborazione inutile o irrilevante pare essere una scelta poco comprensibile, che impedisce un trattamento adeguato per chi non abbia collaborato perché non ha potuto farlo, stante la sua limitata partecipazione al fatto criminoso o per l’ormai intervenuto integrale accertamento delle circostanze e delle responsabilità ad esso connesse. Si tratta di un aggravamento non utile né necessario. L’aumento da ventisei a trenta anni della pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale, attraverso la modifica dell’art. 176 del codice penale, appare misura inutilmente gravatoria e punitiva, che oltretutto dovrebbe andare a regime solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore delle riforma: infatti, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020, deve ritenersi non conforme alla Costituzione l’applicazione di modificazioni peggiorative introdotte nel regime penitenziario anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge.

Durante la discussione in Commissione questo problema sembra esser stato semplicemente ignorato. Infine sembra essere stata ignorata l’esigenza di provvedere ad una adeguata nuova disciplina delle cosiddette misure intermedie, lavoro all’esterno e semilibertà, due passaggi fondamentali in un percorso rieducativo, anche al fine di verificare in concreto se sussistano le condizioni per accedere alla liberazione condizionale. Tale omissione rischia di essere foriera di nuove rimessioni alla Corte costituzionale con la conseguente necessità di por nuovamente mano alla materia.

Resta perciò un senso generale di delusione per una disciplina che, sin dall’inizio della discussione parlamentare, sembra essersi orientata più verso il mantenimento di ampi margini di ostatività piuttosto che verso il rispetto dell’art. 27 della Costituzione.

*Già magistrato, membro del Comitato scientifico dell’Associazione Antigone