di Luisa Urbani
Il Millimetro, 18 febbraio 2023
Un pomeriggio nel carcere di Rebibbia con Franco. Una sensazione difficile da definire, sentimenti contrastanti che non riesci a decifrare. Paura e compassione. Paura perché sai entrando in una struttura dove sai che ci sono anche persone che hanno commesso brutali omicidi, compassione perché in fondo nessuno merita di morire sepolto tra quattro mura.
Ma “tutto dipende da te” mi dice Franco mentre, sorridendomi, prende le chiavi della Cappella dall’armadietto dietro di me. L’ha precisato mezz’ora prima di lui anche la Direttrice del carcere accogliendomi nel suo ufficio al piano superiore. “Grazie alla collaborazione con i volontari e le realtà esterne al carcere - spiega Rosella Santoro - cerchiamo di proporre ai detenuti molte attività. Alcuni aderiscono, ma altri non sono interessati. Dipende molto dalla volontà del singolo. Ma se anche su 100 ne recuperi 1 va bene. L’importante è recuperarli.
C’è gente che fa teatro, pittura, che si laurea... e loro sono la conferma che qui dentro ci si può recuperare, rieducare. Noi offriamo queste possibilità perché, per noi, quando la persona entra in carcere finisce il reato e inizia l’uomo”. Già, finisce il reato e inizia l’uomo, ripeto tra me e me mentre sono al piano terra, in un disimpegno, in attesa che arrivi l’appuntato per “presidiare” l’intervista. Ma Franco, che dopo aver preso le chiavi resta lì con me, già sa di essere lui. Si avvicina. “Sono per forza io quello che devi intervistare, ho l’ergastolo! Però sbrighiamoci che poi devo andare a pregare” dice sorridendo.
Ci presentiamo. Franco non è il suo vero nome. Ha chiesto di restare anonimo. Mi stringe la mano, nell’altra tiene una Bibbia nera con le scritte dorate. Indossa una tuta e un piumino smanicato. Non ha un aspetto trasandato, anzi. La sua è una stretta di mano decisa. Ha uno sguardo intenso. Gli occhi di un ragazzo diventato uomo lì dentro. Vive a Rebibbia dal giorno dell’arresto, 21 anni fa. “Sono entrato poco più che 2oenne con l’accusa di omicidio. Non ho avuto una adolescenza come te, come gli altri ragazzi. Non ho avuto la possibilità di farmi una famiglia. Non ho né una moglie né una fidanzata né dei figli, ma non per questo voglio vivere da relitto. Io ho scelto di vivere, non di sopravvivere”.
Mi chiedo come si possa abbinare il termine vivere ad un carcere. Forse è un mio limite, una mia idea sbagliata. Ma se penso al carcere penso alla morte, non alla vita. Penso ad un luogo dal quale non potrai più uscire. Ma lui parla di vita, di futuro e di speranza. E io resto basita. Arriva l’appuntato, ci sediamo per iniziare la nostra chiacchierata in una stanza a pochi passi da dove stavamo aspettando.
“Qui vicino c’è la falegnameria, per questo vedi tutta questa polvere” mi spiega. “Una falegnameria? In carcere? Non l’avrei mai detto” penso senza dire nulla. Al mio “come passi le tue giornate?” risponde subito elencando un’infinità di attività. Lo blocco e gli chiedo di andare per ordine. Gli faccio capire che dall’esterno si sa poco e niente del carcere.
“La mattina mi sveglio intorno alle 5, resto a letto per un’oretta abbondante finché non mi alzo per preparare il caffè con la macchinetta che ho dentro la cella. Leggo un po’ la Bibbia e poi mi dedico alle mie attività”. Fino ad un mese fa lavorava nel reparto del carcere dove fanno la torrefazione del caffè, che poi viene venduto all’esterno. Un lavoro vero e proprio che ha svolto per 6 mesi. “Facevo le miscele e cuocevo il caffè. Finito il turno tornavo in cella per pranzo. Consumiamo i pasti sempre in cella: colazione, pranzo e cena”.
“E non avete una mensa per mangiare tutti insieme?” “Ma no, quello nei film americani. Il carcere italiano è diverso: si mangia in cella, ma non per forza da soli. Se vuoi puoi invitare qualcuno. Il cibo lo garantisce lo Stato, ma volendo abbiamo anche un piccolissimo supermercato interno al carcere dove possiamo acquistare le cose. Ovviamente non ha tutto come fosse un normale negozio”.