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di Tiziana Maiolo

Il Riformista, 17 marzo 2022

Il pm si è presentato alla Commissione antimafia per esprimere il suo parere negativo contro le decisioni del Parlamento che entro maggio dovrà legiferare sulla incostituzionalità come richiesto dalla Corte e dalla Cedu.

“Antimafia” versus “sorveglianza”, pm contro giudici. Il tiro in porta pare esserselo assegnato il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che si è presentato alla Commissione Antimafia per ribadire il suo “no” alla Corte Costituzionale e alla Cedu sull’ergastolo ostativo, ma ha colto l’occasione per tirare, appunto, verso la porta presidiata da una folta schiera di giudici di sorveglianza e di magistrati garantisti. Se la palla ha centrato l’obiettivo ancora non si sa.

E dipende dai punti di vista, dal momento che neppure quei modesti piccoli cambiamenti, attuati finora dal Parlamento sull’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, vengono accettati dal partito dei pm “antimafia”.

E che la stessa ministra Cartabia viene messa sulla graticola ogni giorno per i suoi tentativi di riforma così come per scelte come quella di mandare a presiedere il Dap il magistrato di cassazione Carlo Renoldi. Che ha due difetti gravissimi, quello di essere un giudice e non un pm, e quello di essere un vero conoscitore delle carceri per come sono e non come se il mondo penitenziario fosse una grande cosca, così come lo vedono gli occhi del partito “antimafia”.

È un po’ come se la separazione delle carriere ci fosse già, tra pubblici ministeri “antimafia” e giudici di sorveglianza. Perché la verità è che i primi detestano e un po’ disprezzano gli altri, che considerano, sotto sotto, degli ingenuotti che in buona fede finiscono per essere pedine degli uomini della mafia.

Come se nelle carceri ci fossero solo i boss del corleonese, come se non sapessero che su circa 55.000 prigionieri, quelli condannati per reati di criminalità organizzata non sono più di poche centinaia. Ma è un fatto di mentalità, di cultura. E anche di ignoranza, in senso letterale. Quella che a volte accomuna le toghe e la politica.

Accade così che il Parlamento, chiamato a legiferare entro il prossimo mese di maggio sull’incostituzionalità già accertata dalla Corte Costituzionale, con l’ordinanza numero 97 del 2021, delle norme sull’ergastolo ostativo nella parte in cui subordinano la richiesta di liberazione anticipata alla collaborazione del detenuto, cioè al “pentitismo”, stia adoperandosi per tradire quel pronunciamento e lo stesso articolo 27 della Costituzione.

“Boicot, boicot”, sembra la parola d’ordine. Complicare, mettere paletti e spargere sadismo, come il fatto di aumentare da ventisei a trenta gli anni di pena da scontare prima di poter avanzare la “domandina”. E poi soprattutto mettere sulla schiena di ogni detenuto uno zaino carico di obblighi da adempiere per poter accedere alla speranza. Come se alla base della riforma ci fosse una sostanziale carica di sfiducia rispetto ai cambiamenti che in ogni persona determinano il passare del tempo ma anche il percorso di riflessione e di lavoro su se stesso.

E anche rispetto a tutto il personale, composto di assistenti sociali, psicologi, medici, volontari e spesso agenti di custodia e direttori delle carceri. E infine e soprattutto i giudici di sorveglianza, che decidono sulla base della relazione degli esperti ma anche sulla conoscenza personale del detenuto. Sul quale, se la legge sarà approvata sulla base della bozza finora conosciuta, peserà l’onere di dimostrare il reale allontanamento da ambienti di criminalità organizzata, presente e futuro. E poi ancora fare due passi alquanto difficili, cioè risarcire il danno e avviare un progetto di ricucitura dello strappo inferto alle vittime con percorsi di giustizia riparativa.

Una vera strada irta di ostacoli, alla fine. Anche perché per risarcire occorre avere disponibilità economiche, mentre la riparazione non dipende dal reo ma deve essere un’iniziativa delle vittime. Sebastiano Ardita è sospettoso, pur apprezzando il tentativo del Parlamento di vanificare la decisione dell’Alta Corte. Pur avendo capito che una legge fatta in questo modo è praticamente inapplicabile, non si fida. Così, attraverso un ragionamento cervellotico, ha già dedotto che quelli della squadra avversa, cioè i giudici di sorveglianza, finiranno con l’accontentarsi di qualche gesto di buona volontà da parte del detenuto e concederanno a mani basse i benefici penitenziari.

In particolare, dice l’ex pm “antimafia”, succederà che ogni boss (perché, come dice sempre l’ex procuratore Giancarlo Caselli, mafiosi si resta per tutta la vita), impossibilitato a dimostrare di aver rescisso i rapporti con i suoi sodali mafiosi, si darà da fare a risarcire e ricucire. Come se le carceri fossero piene di miliardari e le vittime fossero tutte pronte ad avviare percorsi di giustizia riparativa. Quindi? Andrà a finire che “essendo la prova positiva sui legami criminali pressoché impossibile, a fronte di tutti gli altri indici… qualcuno troverà che la positività sarà comprovata da tutte le altre richieste della norma”.

Chi sarebbe questo “qualcuno” sempre pronto a concedere benefici, è concetto che non ha bisogno di spiegazioni o di approfondimenti. È il giudice di sorveglianza, che viene descritto sempre come fosse un complice in agguato nell’attesa di aprire le celle, di spalancare porte e portoni delle carceri.

Non una parola viene spesa nei confronti di tutti coloro, e sono tanti, che non possono testimoniare su fatti che non conoscono perché ne sono estranei o la cui collaborazione non potrebbe aggiungere nulla rispetto a quello che il magistrato conosce già. Quelli che non possono fare i “pentiti”. Certo, se si pensa che nessuno possa mai cambiare, e che non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca, ecco che la proposta del dottor Ardita di vincolare i benefici penitenziari alla sola dimostrazione dell’allontanamento definitivo dalle cosche ha senso. Visto che lui stesso ha detto che è un fatto indimostrabile. Pena di morte sociale, dunque, pollice verso come quello dei romani nell’arena.

E pollice verso anche nei confronti dei giudici di sorveglianza sparsi su tutto il territorio, nei cui confronti la sfiducia è totale, poveri sempliciotti. Meglio lasciare ogni decisione a un ufficio centralizzato, cioè composto da magistrati che non conoscono il detenuto, che decidono solo sulle carte e sull’opinione del procuratore nazionale antimafia e del pm che trent’anni prima aveva condotto le indagini magari su un giovinetto oggi incanutito e diverso da colui che era stato.

Anche su questo punto il ragionamento del consigliere Ardita è cervellotico, anche se “furbo”. Se coloro che trent’anni prima avevano fatto parte della stessa cosca sono detenuti in carceri diverse, presentatisi davanti a disparati giudici nei 26 distretti, ottengono risultati divergenti, che cosa succederà? “La conseguenza sarà che il più garantista dei 26 farà prevalere la sua posizione e l’ergastolo ostativo cadrà”.

Ma, dottor Ardita, come si fa a ragionare in questo modo? Stiamo parlando dei reati o delle persone? Se il reato accomuna, non pensa che ogni individuo sia diverso dall’altro e che nell’arco di trent’anni ciascuno viva la propria vita - nello stesso carcere o in un istituto diverso non necessariamente uguale a quella degli altri? E infine: perché la decisione di un tribunale dovrebbe attrarre come un morbo contagioso, quella di tutti gli altri? Speriamo davvero che quel suo tiro in porta non vada mai a segno.