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di Patrizia Maciocchi

Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2023

La Cassazione ha depositato le motivazioni con le quali, l’8 marzo, ha deciso di non inviare alla Consulta la normativa sull’ergastolo ostativo annullando con rinvio il ricorso di un detenuto in cella da 30 anni, per mafia e omicidio che, pur non collaborando, chiede la liberazione condizionale.

Per la nuova disciplina sull’ergastolo ostativo la mancata collaborazione con la giustizia è una preclusione relativa e non più assoluta. Anche i non collaboranti, condannati per reati ostativi, hanno dunque la possibilità di accedere ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, in presenza però di “stringenti e concomitanti condizioni”.

La Cassazione (sentenza 15197, relatore Giuseppe Santalucia) ha depositato le motivazioni con le quali, l'8 marzo, ha deciso di non inviare alla Consulta la normativa sull'ergastolo ostativo - modificata dal governo Meloni - annullando con rinvio il ricorso di un detenuto in cella da 3o anni, per mafia e omicidio che, pur non collaborando chiede la liberazione condizionale. La Suprema corte sottolinea come la riforma dell'ergastolo ostativo (Decreto Legge 162/2022) abbia cambiato il quadro in modo significativo.

L'intervento ha sostituito integralmente il comma l-bis dell'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario (con l'aggiunta dei commi 1-bis.1 e 1-bis.2), consentendo, anche a chi non collabora di fare domanda per i benefici, istanza che può essere accolta, in presenza di più condizioni, diversificate a seconda dei reati. Nel caso esaminato il reato oggetto di condanna rientra nel catalogo degli ostativi. Le condizioni, spaziano quindi dalle iniziative dell'interessato a favore delle vittime (risarcimenti e giustizia riparativa) all'esclusione dell'attualità dei collegamenti con il clan, fino alla revisione critica dei crimini commessi.

Altra condizione limitatrice per i condannati alla pena dell'ergastolo è l'ammissione alla liberazione condizionale solo dopo aver scontato 3o anni di pena rispetto ai 26 anni, previsti della precedente normativa. Verificate le condizioni il tribunale dovrà fare una complessa attività istruttoria, per acquisire informazioni a conferma degli elementi offerti dall' interessato, che riguardano, il perdurare dell'attività della compagine di appartenenza, il profilo criminale del detenuto, la sua posizione nell'associazione, eventuali nuove imputazioni sopravvenute o anche misure cautelari, fino alle infrazioni disciplinari commesse durante la detenzione.

La Suprema corte evidenzia però l'impossibilità di esaminare la compatibilità con la Carta, delle norme per la parte in cui alzano da 26a 3o anni la soglia del periodo di detenzione per reati ostativi, per chiedere la liberazione condizionale. Tema che non può essere trattato perché, nello specifico, il detenuto ha superato il requisito dei 30 anni in cella.

Il dato impedisce di esaminare i profili di rilievo costituzionale di una normativa “che nulla prevedendo in relazione alla sua applicazione nel tempo, restringe, con possibile frizione con il principio costituzionale del divieto di retroattività della norma penale di sfavore, l'accesso alla liberazione condizionale che, al pari delle altre misure alternative, costituisce, per usare le espressioni della sentenza 32 del 2020 della Corte costituzionale, una vera pena alternativa con accentuata vocazione rieducativa”. Ora il caso torna al tribunale di sorveglianza de L'Aquila, che lo esaminerà alla luce delle nuove norme.