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di Roberto Cota

Il Riformista, 2 novembre 2022

La materia del cosiddetto ergastolo ostativo (istituto che non consente di accedere ai benefici carcerari tipo permessi premio o semilibertà) non è delle più semplici perché si presta certamente ad essere strumentalizzata in senso populista: “niente benefici ai mafiosi che non collaborano con la giustizia!”. Detta così, tutti d’accordo! Anzi, il popolo, in particolare quello che si scalda sui social, andrebbe oltre: “buttiamo via la chiave, muriamoli vivi, etc.”.

Elettoralmente, quindi, la posizione del governo che ha adottato un decreto legge che sostanzialmente conferma l’ergastolo ostativo per i mafiosi che non collaborano con la giustizia, è perfetta. Per il non collaborante, infatti, l’accesso ai benefici carcerari secondo il testo del decreto diventa molto difficile, se non praticamente impossibile.

Oltre ad essere elettoralmente perfetta, tale posizione è anche particolarmente furba in quanto mette all’angolo tutti i detrattori che usano il pretesto della lotta alla mafia esclusivamente per avere visibilità e fare delle battaglie politiche.

Sennonché, il diritto e la procedura penale sono materie che andrebbero messe al riparo dalle questioni legate alla ricerca del consenso ed alla tattica politica. Ci sono diritti fondamentali che vanno riconosciuti a tutti, che sono tutelati dalla Costituzione e che, giustamente, la Corte Costituzionale deve far rispettare. Nel nostro ordinamento non esiste la pena di morte, la pena massima è l’ergastolo. Poiché le pene devono avere una finalità rieducativa, ciascun detenuto deve avere almeno la possibilità e la speranza di potersi riabilitare. La previsione della necessaria collaborazione per un mafioso è stata pensata come dimostrazione per il reo di aver rescisso i legami criminosi e, quindi, di non essere più pericoloso. Questa condizione è necessaria per poter usufruire dei benefici penitenziari.

La Corte Costituzionale, però, ha stabilito che la collaborazione non può essere l’unico modo per dimostrare di aver interrotto i legami con la criminalità organizzata ed ha invitato il Legislatore a provvedere dando tempo fino all’8 novembre. Da qui, la necessità di intervenire tramite decreto legge. Vi è da dire, che proprio la Corte, in un precedente arresto, aveva chiarito nella sostanza come, da una parte, la scelta di collaborare possa essere legata a ragioni di convenienza momentanea e, dall’altra, come la decisione di non collaborare possa essere determinata non dal mantenimento dei vincoli con l’associazione criminosa, bensì da altre ragioni come il timore di ripercussioni sui familiari.

Approvare un testo, come ha fatto il governo, che è così restrittivo nel porre paletti all’accertamento della rescissione dei vincoli criminali ed alla valutazione dell’attuale pericolosità del reo, ripropone gli stessi temi di costituzionalità che hanno portato la Corte ad intervenire. Può far acquisire consenso e tranquillizzare l’opinione pubblica, ma non risolve nello specifico il problema di fondo: che si riproporrà.

Cosa fare? I detenuti dovrebbero essere valutati considerando attentamente il percorso compiuto nei lunghi anni di detenzione. Proprio l’osservazione del detenuto, della sua rivisitazione critica dei fatti, dell’adesione ad attività trattamentali ed anche riparative che può fornire fondamentali elementi per riconoscerne l’effettivo cambiamento. Del resto, non dare ad un detenuto neppure una speranza vuol dire riservare un trattamento inumano persino peggiore rispetto alla pena di morte.