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di Riccardo Staglianò

La Repubblica, 6 marzo 2024

A volte basta un divorzio per passare da una vita dignitosa a una in cui ogni euro conta. Inizia con una minestra di ceci il nostro viaggio per capire cosa voglia dire, in concreto, fare molta, molta fatica ad arrivare alla fine del mese. Alla fine venne l’ora di cena. “Una cena semplice, va bene?” dice Giuseppe, quasi scusandosi, prima di affrontare l’ora di viaggio, metro più bus, che ci porterà da dove lavora a dove vive, nel bel mezzo del niente di San Giuliano Milanese. Nella villetta unifamiliare dell’ottantasettenne signor Renato, suocero di sua sorella, che quando lui è rimasto per strada gli ha offerto ospitalità. La cucina è rimasta fedele a un’estetica anni 70. Il menu prevede minestra di ceci. Ingredienti per tre persone: un barattolo di ceci, mezza cipolla e una carota, salvia presa dall’orto, un pomodoro pelato, ditaloni rigati. E tanta acqua, un litro o forse due, che trasforma irrimediabilmente la minestra in brodo.

Proprio buono, però. Segue frittata di patate e cipolle. Vino da otto gradi in bottiglioni da litro e mezzo. Un’insalatina. Un piccolo tartufo di cioccolato che qualcuno gli ha regalato a Natale e viene disseppellito per l’ospite. Per finire un caffè che, in assenza di Sambuca, corregge con la cedrata Tassoni che ha comprato in sconto, quattro euro due bottiglie, e centellina. Per questo pasto, le cui materie prime complessive si aggireranno sui tre-quattro euro, Giuseppe ha ringraziato Dio come aveva già fatto per il panino a pranzo, aggiungendo una stupefacente clausola che ripeterà spesso: “E io sono fortunato, perché tanti non hanno le spalle coperte come me”. Intendendo dire una sorella che gli ha rimediato una sistemazione. Un fratello che gli ha fatto un prestito per tamponare l’ennesima emergenza. Una mamma che lo spesa di tutto quando d’estate porta i quattro figli in Puglia, dove è nato. I soldi gli fanno difetto, non la gratitudine.

Sognando l’Ecuador - L’incidente che ha fatto deragliare quest’uomo dai binari di una vita economicamente magra ma dignitosa è stata la ruvida separazione dalla moglie, cinque anni fa. Prima di arrivarci, breve riassunto biografico. Giuseppe Lanzillotti nasce 58 anni fa nella campagna di Ostuni da padre operaio dell’Enel col pallino del mattone - costruirà tre casette al mare, prima di una serie di investimenti rovinosi - e madre casalinga. Studia da perito elettrotecnico e trova un posto alla Telecom, a Milano, dal ‘91 al 2001. Mette addirittura da parte 15 milioni di lire, ma quel tran tran gli va stretto. Parte per l’Ecuador e, da volontario di Africa Oggi, partecipa a progetti di aiuto per i campesinos. Lì conosce Marta, che gli dà il primo figlio e diventa sua moglie. Nel 2004, lei già incinta del secondo, rientrano in Italia. Tramite il giro della cooperazione, una signora lo segnala alla Casa della carità di Don Colmegna che lo prende come guardiano. Nascono altre due figlie (in totale oggi la prole ha 20, 18, 17 e 11 anni, nell’ordine: un aspirante grafico pubblicitario, uno che sta per finire il liceo informatico, una che a scuola va così così e l’ultima alle medie) mentre la coppia già scricchiola. “Non mi scocciare” gli dice lei, almeno nel racconto di lui, quando in un incidente evitabile gli sfascia l’auto. Rancori. Liti. In un paio di occasioni arrivano i carabinieri. Nel 2018 si lasciano ed è estromesso dai 67 metri quadrati a Pioltello che lui ha comprato con cinquantottomila euro prestati dai genitori e sessantamila a mutuo, “a un tasso del 16,25 per cento”. Di colpo lo stipendio da 1.300 euro si rinsecchisce. Togli i 150 euro di alimenti per ogni figlio, togli i 130 al mese per pagare gli infissi della ex casa familiare e, da poco che erano, diventano quasi niente. “Mi restano 570 euro per campare a Milano. È praticamente impossibile” dice nella maniera più fattuale che si possa immaginare.

Pizza, in piedi, al taglio - Una tendenza di cui mi son reso conto subito in questa serie sulla povertà, è che nei discorsi dei poveri ci sono tanti numeri, che scarseggiano, anzi risultano proprio disdicevoli nel fraseggio dei benestanti. Niente cifre tonde nei racconti di Giuseppe: l’approssimazione è l’ennesimo lusso che non si può permettere. Come i 103 euro sul bancomat PostePay da cui preleva con chirurgica parsimonia i contanti. Il fido di 1.400 euro che gli consente di comprare oggi e vedere l’addebito il mese dopo (“Certo, mi costa parecchio di interessi. Tipo 75 euro all’anno”). E poi i 2.500 euro per l’auto che gli ha venduto una cara amica che si accontenta di un rimborso con tempi biblici da 50 euro al mese. I 600 euro che quattro anni fa ha dovuto pagare per la stufetta elettrica tenuta accesa tutto l’inverno per non far restare i figli al gelo. I 9.000 di porte e finestre, decisamente fuori budget, che non si sa perché aveva deciso di acquistare. I 300 euro al mese che gli ha passato l’associazione “Papà separati” per i primi tempi in cui si è ritrovato fuori di casa. I 170 euro per un bimestre di lezioni di violino per la figlia più piccola alla Scuola civica di Pioltello. I 26 euro per andare a vedere il film Wonka con le due ragazze. Gli 8 euro per mangiare in tre la pizza il sabato prima (“al trancio dalla catena Alice, ma in piedi, con mio figlio che è andato a prendere l’acqua dalla Coop lì accanto. Ed è un attimo, se ti siedi, spenderne 30”). La lista è lunga e si sarebbe potuto raccontare questa storia anche solo per capitoli di spesa, i più cospicui dei quali da saldare a rate.

Le nude cifre - È una regola ferrea dell’essere umano: che siano sesso o soldi, parla ossessivamente di ciò che non ha. E dal momento che non gli rivolge più la parola, la ex, Marta, usa i figli come messaggeri di recupero crediti: “Mamma voleva sapere se hai pagato gli 80 euro dello psicologo” gli chiede dunque una figlia. Lui tergiversa un po’ perché è più scannato che mai e lei, forse sobillata dall’adulta, lo minaccia: “Visto che non vuoi fare niente per noi, sto pensando di chiedere il cambio di cognome e tenere solo quello di mamma”. Sono momenti che poi passano ma non giovano all’equilibrio emotivo di Giuseppe. Che si àncora giusto a una fede incrollabile. Nella sua stanzetta a San Giuliano, fiocamente illuminata da lampadine a basso consumo, ha un piano elettrico ricordo della gioventù. Con cui suona in chiesa, che per lui è diventata anche il principale, se non unico, centro di socializzazione. “Donne? Mi piacerebbe, ma i miei fratelli sono sempre stati più sfacciati di me in quel campo”. Sul piano c’è una Bibbia con un segnalibro che avanza ogni giorno, per poi ricominciare il giro da capo. Come copertina del raccoglitore degli spartiti religiosi ha scelto un’immagine della Madonna di Fatima che trovò - “non credo nel caso, credo nei segni della Provvidenza!” - proprio nella casa che ora lo accoglie in cambio di un contributo di circa 150 euro sulle bollette. Da un punto di vista dell’abbattimento costi, impossibile fare meglio. Da quello della libertà di autodeterminazione di un quasi sessantenne che deve chiedere il permesso per tutto a un estraneo, difficile fare peggio.

Regali di natale - Quindi che cos’è, per Giuseppe, la povertà? “Se mi guardo intorno, tipo nel mio lavoro che è fornire residenze fittizie per i 7.650 milanesi che non ce l’hanno e quindi non hanno diritto al medico curante, ai servizi sociali, a niente, io non mi sento povero ma fortunato. Mentre mi spiace che mia figlia abbia rinunciato alla gita scolastica quest’anno perché sarebbe stato un problema. O che gli altri miei ragazzi, appassionati di manga e cultura orientale, abbiano dovuto declinare un corso di coreano perché non avevamo gli 800 euro che servivano”. Davvero non si lamenta d’altro? “Io cerco di mettere da parte 500 euro all’anno per una piccola vacanza che, negli ultimi anni, è stato un pezzo di Cammino di Santiago” dice mostrandomi una mappa e le credenziali di pellegrino che gli consentono di affittare una stanza per una quindicina di euro. Ancora: “A pranzo mi porto da casa una frisella al pomodoro, e l’acqua la prendo gratis alla Casa dell’acqua. Per Natale mi hanno regalato dei calzini, mio cognato mi passa i suoi vestiti: per me va bene così. È ai miei figli, cui ho regalato 50 euro a testa, che vorrei poter offrire più opportunità”. Gli chiedo se la politica capisce il problema di chi ha molto poco. Lui risponde su chi ha votato: “Rifondazione. Poi Renzi, ma non lo rifarei perché, a partire dal Jobs act, è uno che facilita solo chi ha i soldi. Ora Pd. I 5 Stelle hanno fatto il reddito di cittadinanza, una cosa giusta che ora non c’è più”. E se Meloni gli chiedesse quale misura urgente potrebbe migliorare la situazione di chi ha una vita agra? “Le direi che il salario minimo costerebbe poco e sarebbe di giovamento per tutti, ricchi compresi, che avrebbero la tranquillità di stare in una società più giusta, quindi meno arrabbiata. Il tutto in cambio di un piccolo ritocco delle tasse per loro che possono permetterselo. Entrate con cui potremmo, che so, offrire i libri scolastici per tutti fino alla terza media. La mensa, magari. O corsi di pallavolo e basket per le famiglie che non possono permetterseli. D’altronde chi pagherà le loro pensioni? I ragazzi di oggi, lavoratori di domani: non sarebbe meglio che, avendo avuto migliori opportunità scolastiche, abbiano anche migliori occupazioni? Alla fine la giustizia sociale conviene”.

Ritorno nella cameretta - È stupefacente che questa cristallina ovvietà risulti inaccessibile alla comprensione di tanta parte della nostra classe dirigente. A parole, ovviamente, sono tutti d’accordo. Dall’ultima Miss Italia al più truce parlamentare di destra, a favor di telecamera, dopo la pace nel mondo, hanno tutti la solita aspirazione: sconfiggere la povertà. Ma come, in pratica? Perché non è un gioco a somma zero: a qualcuno bisogna togliere se vogliamo dare a qualcun altro, peggio equipaggiato. Bernie Sanders, che abbiamo intervistato qualche numero fa, riprende in Sfidare il capitalismo (Fazi) la lezione di Franklin Delano Roosevelt quando avverte che “la vera libertà individuale non può esistere senza la sicurezza e l’indipendenza economica”. Giuseppe dice semplicemente, senza nemmeno un’ombra di pietismo, “non sono autosufficiente”. All’età in cui potrebbe essere nonno è tornato bambino nella cameretta del quasi novantenne Renato. Che, stendendo la tovaglia prima di cena, si accorge che è macchiata e vorrebbe cambiarla per l’ospite, ma altre non ce ne sono. Mentre guardavo il cuoco alle prese con la magia acquatica sulla minestra di ceci non ho potuto fare a meno di ricordarmi di un fenomenale libro dell’argentino Martín Caparrós. Dove, a un certo punto, racconta di una donna del Bangladesh che faceva bollire delle pietre in una marmitta per dare l’illusione ai figli che c’era qualcosa da mangiare. Così drammatico e così inutile. Si intitolava “La fame”, che della povertà è il più drammatico sottoinsieme. Un girone che Giuseppe non conosce. Come ama ripetere, è fortunato, lui.