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di Elisa Sola

La Repubblica, 12 aprile 2024

Elmadhi Halili è stato il primo ideologo dello Stato Islamico arrestato in Italia. Condannato a 6 anni, in carcere ha iniziato la deradicalizzazione, interrotta dopo l’uscita. Definito, pericoloso e ancora ossessionato, è stato però lasciato solo. Lezione numero uno. “Ai miscredenti dico, aggrediteli come vi hanno aggredito. Chi insulta Maometto, lo si può uccidere”. Era il 6 luglio 2017 quando Elmadhi Halili, il primo ideologo dello Stato islamico in Italia condannato per terrorismo, spiegava a un ventenne ivoriano - in una casa di Lanzo - il proprio manuale, “Quaderno rosso”. Un manoscritto di 64 pagine che Halili, a 23 anni, aveva ideato per indottrinare i combattenti pronti a partire per la Siria.

Due anni dopo viene arrestato. Poi condannato, a 6 anni e 6 mesi di reclusione. E mentre il suo nome, unito alla fama di “filosofo dell’Isis”, veniva stampato - mentre era in carcere in regime di alta sicurezza - nei documenti delle intelligence di tutto il mondo, le istituzioni, gradualmente, si sono dimenticate di lui. Halili oggi è un senza tetto accampato in zona parco Dora a Torni. Scarcerato sei mesi fa, e finito al centro di uno dei progetti di deradicalizzazione pilota a Torino e in Italia, vive su una panchina. Solo, in preda all’ossessione della guerra santa. E in preda ai demoni del disturbo psichiatrico di cui soffre. Qualche giorno fa ha aggredito senza un motivo due musulmani di passaggio.

Dopo la scarcerazione, era finito in un Cpr, decreto di espulsione alla mano. Ma per un motivo burocratico, il suo rimpatrio in Marocco non è stato possibile. Così è tornato a Lanzo, a casa dei genitori, che lo hanno respinto. Loro sanno che Halili è lo stesso di prima, più o meno. Che potrebbe avere le stesse idee. E che, come aveva detto al processo il procuratore aggiunto Emilio Gatti, “è uno dei soggetti più pericolosi e radicalizzati in Italia”. “È necessario che venga avviato per lui un percorso di deradicalizzazione”, aveva ribadito Gatti. E il percorso era stato avviato, mentre Halili era in carcere. Ma da quando il giovane è uscito di prigione, l’unica persona che si è occupata di lui è il teologo islamico del progetto di deradicalizzazione. Un imam incaricato dalle istituzioni per agire come intermediario con Halili, all’interno dell’istituto penitenziario, per tentare di convincerlo ad abbandonare l’idea della violenza come mezzo necessario. È stato il teologo a lanciare l’allarme, nelle ultime settimane, scrivendo più volte alla prefettura e al comune di Torino: “È un soggetto che versa in condizioni di pericolosa instabilità. Ha bisogno di cure”. Ma gli appelli paiono inascoltati. Halili bivacca tra parchi e giardinetti.

È pericoloso perché non è stato (ancora) deradicalizzato, è ancora ossessionato. Ha problemi psichiatrici. Ha con sé un telefonino ed è libero di muoversi. Eppure Halili, secondo il teologo intermediario, si merita una possibilità. Avrebbe dimostrato “buona volontà” dopo essere stato scarcerato. Si era fatto convincere, per esempio, a sottoporsi a una visita medica psichiatrica. E sarebbe anche disposto, secondo l’imam (di cui non sveliamo il nome per motivi di sicurezza) a farsi ospitare in una comunità di recupero che il Gruppo Abele metterebbe a disposizione, se qualcuno pagasse la retta. Le basi per un percorso di recupero e integrazione ci sarebbero. Ma senza interventi delle istituzioni, Halili potrebbe tornare a manifestare il suo estremismo.

Il percorso per curarlo e reinserirlo nella società dopo la galera, era stato avviato qualche anno fa. Era stato creato un tavolo istituzionale (che esiste ancora) con prefettura, procura, questura, servizi, Comune di Torino e il Ran (Radicalisation awareness network) della commissione europea. Ma da quando Halili è tornato libero, l’iter si è bloccato. L’imam lo ha incontrato per caso, accampato nella zona di via Livorno. Aveva aggredito due passanti. Il teologo ha scritto solleciti alla prefettura. Ha accompagnato Halili dallo psichiatra. C’è stata una riunione del tavolo, due mesi fa. Ma Halili continua a essere un senzatetto. Il teologo, pochi giorni fa, ha avvisato il ministero dell’Interno che presto darà le dimissioni dall’incarico. Non è pagato. Non sa più a chi chiedere aiuto. E nonostante sia monitorato dai servizi, inizia a temere per la propria incolumità.