sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Maurizio Ferrera

Corriere della Sera, 18 ottobre 2023

Perché il conflitto si trasformi da distruttivo a costruttivo è indispensabile che entrambe le parti tengano alla sopravvivenza fisica. Altrimenti, non c’è deterrenza che tenga. Una parte significativa dell’opinione pubblica occidentale (in particolare a sinistra) fa fatica a condannare senza se e senza ma l’eccidio di civili innocenti perpetrato da Hamas il 7 ottobre. I se e i ma riguardano sempre Israele, visto come inveterato oppressore del popolo palestinese, esso stesso colpevole di violenze gratuite contro la popolazione, incluse quelle in corso con i bombardamenti di Gaza City.

Il ricorso al moralismo (soprattutto se sbrigativo) rischia sempre di offuscare i giudizi. I n questo caso, la logica della “bilancia” come strumento neutro per pesare le colpe trascura una differenza cruciale fra Hamas e Israele. Come tutti i fanatismi religiosi, la cultura politica di Hamas si fonda sulla totale svalutazione della persona come tale, della sua stessa esistenza individuale: ciò che conta è servire la causa. L’annientamento del nemico giustifica persino l’auto-sacrificio, come nel caso degli uomini-bomba, oppure l’uso della popolazione civile e degli ostaggi come scudi umani. Per Hamas la vita individuale (della propria parte e dell’altra) non ha alcun valore.

I civili trucidati il 7 ottobre non erano persone ma solo yahud, membri indifferenziati di una comunità da distruggere e basta. Alla stessa logica rispondono i blocchi stradali che impediscono l’esodo di civili verso Sud, a difesa della propria vita.

Se consideriamo questo aspetto, i crimini di Hamas appaiono come una variante di quella “banalità del male” descritta da Hanna Arendt in occasione del processo a Adolph Eichmann, l’ufficiale nazista che fu responsabile della macchina organizzativa dell’Olocausto. Chi perpetra il male, sostenne la grande filosofa politica, non lo fa necessariamente a causa di una natura individuale intrinsecamente malvagia, ma perché c’è qualcosa nella sua mente che impedisce di percepire l’atrocità delle sue azioni. Nel caso di Eichmann, si trattava del culto dell’obbedienza, dell’assenza di idee e immaginazione, uniti alla sfrenata sete di riconoscimenti. Nel caso di Hamas si tratta della assoluta incapacità di conciliare lo scopo collettivo (l’autodeterminazione palestinese all’interno di un proprio territorio) con il rispetto delle singole vite individuali.

Questa incapacità altera la logica dello scontro politico, azzera ogni possibilità che il conflitto si trasformi da distruttivo (l’annientamento reciproco) a costruttivo (disponibilità a qualche compromesso per arrivare alla pace). Perché ciò possa avvenire è infatti indispensabile che entrambe le parti tengano alla sopravvivenza fisica. In modo che si possa così tracciare una linea rossa rispetto all’uso “assoluto” della violenza. Durante la Guerra Fredda fu proprio il timore di una “mutua distruzione assicurata” a prevenire l’impiego della bomba atomica.

Se una parte rinuncia al desiderio di vivere, non c’è deterrenza che tenga. Il conflitto degenera in una spirale di demonizzazione e de-umanizzazione di chiunque - comprese donne, vecchi e bambini indifesi - faccia parte della comunità da annientare, senza alcuna considerazione della sofferenza inflitta alle singole persone né timore delle conseguenze. E silenziando qualsiasi pulsione empatica.

Israele non è certo privo di responsabilità, la sua destra estrema vuole annettere la Cisgiordania. Il blocco dei beni di prima necessità agli abitanti di Gaza (per fortuna ora sospeso) ha tradito la tentazione di ricorrere a forme di punizione collettiva e indistinta, inammissibili per uno Stato liberaldemocratico. Va però sempre ricordato che Israele si trova di fronte a un nemico che celebra programmaticamente la morte, con cui non si riesce a imbastire una tregua durevole. In tale contesto, è molto difficile mantener saldo il confine tra l’efficacia dell’auto-difesa e la sua legittimità giuridica e morale.

Vi è un evidente divario di forze fra Israele a Hamas. Ma vi è anche una asimmetria di vincoli politici. I leader israeliani, militari compresi, devono rispondere all’opinione pubblica e al vaglio della Corte Suprema, che in passato non ha esitato a condannare i casi di danni collaterali sproporzionati (come potrebbe essere il bombardamento dell’ospedale di Gaza che ha provocato centinaia di morti). Fra le offese subite ad opera dei terroristi e le scelte su come reagire si frappongono le dinamiche della politica democratica e del diritto.

Hanna Arendt confidava nella possibilità che il ricambio generazionale potesse fermare le spirali distruttive e favorire un “nuovo inizio”, attraverso percorsi di riconciliazione basati sul binomio perdono-promessa. Il perdonare serve a trascendere il peso di un passato che non può essere cambiato e che pende come una spada di Damocle sulla testa di ogni nuova generazione. Il vincolarsi con delle promesse serve a contrastare “l’oceano di incertezza che caratterizza il futuro con delle isole di sicurezza, senza le quali non possono esservi relazioni costruttive fra le persone”. La normalizzazione dei rapporti fra Germania post-bellica e il nuovo Stato ebraico ha potuto avvenire grazie a questo binomio. Tale possibilità resterà invece preclusa al conflitto medio-orientale fino a quando il terrorismo di Hamas e la sua cultura della morte non cesseranno la loro presa sul popolo e in particolare sui giovani palestinesi.