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L’Osservatore Romano, 27 febbraio 2024

Parla l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Un’emergenza che sembra non finire mai. Dall’inizio dell’anno sono sedici le persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane. Nel 2022 si è raggiunto addirittura il numero di 84 suicidi, ma è stato alto anche nel 2023: 69. Dietro questi numeri, vite spezzate non solo dagli errori commessi in passato ma anche dalla mancanza di speranza di poter riprendere in mano la vita e cambiare il finale. Attualmente sono poco più di 60.000 le persone detenute nelle carceri italiane, al netto dei circa 48.000 posti realmente disponibili. Il tasso di affollamento è di oltre il 125 per cento. Era da prima della pandemia di covid-19 che ciò non accadeva. Sovraffollamento, solitudine, mancanza di prospettive dopo la fine della pena: tante le cause che si possono individuare alla base di un disperato gesto estremo, ma è un dramma che non può essere messo sotto silenzio né può lasciare tranquille le coscienze. “I suicidi - ha dichiarato don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane all’agenzia Sir - avvengono soprattutto nei grandi istituti.

Siccome non sono a misura d’uomo, molti detenuti, che vivono situazioni difficili anche sul fronte della salute, non vengono raggiunti né aiutati, proprio a causa del numero elevato dei ristretti. Solitamente, nei piccoli istituti, invece, dove c’è un dialogo continuo con il detenuto, nel momento in cui si sente più giù moralmente, spiritualmente, fisicamente, il ristretto può essere raggiunto più facilmente dal personale che lavora in quel carcere”.

A volte si giunge al gesto estremo di togliersi la vita perché spesso “mancano anche educatori e psicologi, figure che tante volte si rapportano ai detenuti che vivono le loro fragilità proprio per sostenerli”. Ma con quali strumenti a disposizione sarebbe possibile impedire a tanti detenuti di suicidarsi? Secondo Grimaldi, “in questo settore c’è bisogno veramente di una rete, di un rapportarsi gli uni con gli altri, creare rete per risolvere i problemi dei detenuti. C’è bisogno che tutte le organizzazioni che lavorano fuori o dentro il carcere siano messe in rete e collaborino ognuno dando il proprio apporto”.

Forse basterebbe più collaborazione tra i molteplici soggetti del mondo carcerario (cappellani, associazioni di volontariato, cooperative) per impedire l’atto estremo. “Molte volte - conclude don Raffaele - noi ci sentiamo un po’ con le mani legate: non sappiamo a chi rivolgerci perché queste esperienze non vengono comunicate o non vengono conosciute. Anche per questo io giro tra gli istituti penitenziari, incontro i cappellani, spingo per la formazione dei volontari: c’è tutto questo lavoro pastorale attraverso il quale cerchiamo di seminare e poi speriamo di raccogliere a favore dei più deboli”.