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di Federica Graziani

Il Dubbio, 5 novembre 2022

Tra i bravi garantisti, e sparuti, e i cattivi giustizialisti, e onnipresenti, s’è da sempre giocato un conflitto ideologico chiaro. Da una parte l’aderenza alle regole dello Stato di diritto, la temperanza e la misericordia, dall’altra il colpevolismo, l’orrore del farla franca, l’invocazione di più carcere come panacea per la disonestà dilagante. Tutto chiaro. Tutto chiaro finché fra i due schieramenti avversari non ha attecchito una versione recente dell’antica tradizione di denuncia della cultura del piagnisteo. Nella mondanità giornalistica e sociologica s’è cominciato a portare lo sbuffo e, pontifica tu che minimizzo io, ora lo sbuffo è dilagato.

Si ha in sospetto di luogo comune il richiamo ai principi costituzionali, ci si spazientisce con la saggistica sui diritti civili, si è impazienti di tacciare di litania la denuncia delle condizioni indecenti in cui versa il sistema della giustizia. Certo che le gogne mediatiche, i furori sanzionatori e i poveri cristi buttati in galera sono materia seria e grave, ma che barba e che noia, lasciateci pur divertire con qualche libertà di coscienza, siamo fra adulti! La situazione s’è ingarbugliata ancora di più con i risultati delle urne. Ha vinto il centro destra e non sarà che la colpa vada attribuita al poco appeal dei temi cari a quella che ci si ostina con eccesso di nostalgia a definire sinistra? Manca lo slancio ideale ma manca pure la concretezza, non c’è presa sentimentale però anche l’ironia stufa, i problemi si accavallano e le priorità si confondono.

Ma il centro destra non solo s’è permesso di vincere, s’è poi pure messo a governare. E il primo decreto legge del governo Meloni, siglato da appena una settimana, ecco che torna a schiarire le idee di tutti coloro che tanto si sono annoiati delle tenzoni in sospetto di politicamente corretto sulla giustizia. Un decreto per tre provvedimenti: il tentativo di salvare l’ergastolo ostativo prima che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla sua incostituzionalità, la previsione di un nuovo reato che vorrebbe essere una norma anti- rave ma per ora vieta i raduni di più di 50 persone “pericolosi per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica” e la sospensione della cosiddetta riforma Cartabia del processo penale, che fra le altre cose prevedeva sanzioni alternative al carcere per i reati minori comminabili già in sentenza.

Tutti per un panpenalismo, un panpenalismo per tutti. Il decreto- legge è infatti uno zibaldone coerente e luminoso dei caratteri dominanti del populismo penale, passione punitiva che avrà pure annoiato i commentatori ma in fondo mette alla fine sempre un po’ tutti d’accordo, opinione pubblica e governanti d’ogni colore. E che è per l’ennesima volta descritta in “Le pene e il carcere”, dettagliata fenomenologia della questione penale italiana negli ultimi 30 anni a firma di Stefano Anastasia, docente di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Perugia, Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante per le Regioni Lazio e Umbria. La definizione di pena e quali siano le sue concrete articolazioni, la dinamica qualitativa e quantitativa del campo penitenziario italiano, la questione della sicurezza e del populismo penale, i diritti umani dei detenuti e la giurisprudenza umanitaria, la legittimità penale e la sopravvivenza del sistema penitenziario sono i capitoli di un abbecedario che si propone di bucare la bolla degli annoiati e dei distratti, investigando lo sfondo culturale al cui interno il panpenalismo così in auge prende forma.

Torniamo ai nostri giorni e al decreto legge appena licenziato dal governo Meloni con le immancabili chiose dei: “Volevamo dare un segnale”, “L’Italia mai più maglia nera in materia di sicurezza”, “Provvedimento importante e simbolico”. E leggiamo Anastasia: “La definizione dei confini del diritto penale e la sua concreta applicazione in ambito giudiziario costituiscono, sì, azioni ad alto valore simbolico, talvolta manomessi fino a rinnovare rituali sacrificali, ma restano strumenti, non fini, di qualsivoglia idea di giustizia. Per intenderci: in nome di una qualche idea del bene si sono potute tagliare le teste, deportare esseri umani o lanciarli in mare da aerei in volo, ma mai alcun carnefice ha potuto sostenere che quegli abusi fossero il bene ultimo perseguito dalla propria parte politica, quanto piuttosto una necessità per il conseguimento, il consolidamento o la salvezza di qualcos’altro. Come nel rituale più antico, il sacrificio è un voto (addirittura una rinuncia) per il bene, non il bene in sé. Tutto ciò non rende plausibile aggiungere al novero delle altre possibili una specifica ideologia penal- populista, quasi fosse una idea a sé stante di società giusta o di bene comune, la società della punizione o il bene della maggior possibile sofferenza inflitta legalmente. Il diritto e la giustizia penale restano strumenti per un’idea ulteriore di giustizia, maggioritariamente condivisa o imposta ai consociati da chi detenga il potere politico. In fondo, anche dopo l’avvento delle carte dei diritti e della costituzionalizzazione dei valori, l’individuazione legale delle ipotesi di reato resta il più grande esercizio pubblico della loro specificazione, traducendo in norme giuridiche condotte lesive dei beni costituzionalmente tutelati secondo la scala di gravità delle loro conseguenze sanzionatorie. Che poi questo esercizio possa dare luogo ad abusi o ad aberrazioni, questo è problema nostro, di chi - legittimamente - non si riconosca nella selezione dei beni tutelati dalla legge penale e ne contesti la sua corrispondenza ai valori costituzionali, o addirittura contesti le stesse previsioni costituzionali, sulla base di un diverso orizzonte valoriale”.

Dietro a quel primo decreto allora sta una idea della giustizia, e quindi della vita, che vuole l’esecuzione capitale di chi commette reato, che teme alcune forme di raduno giovanile, che crede poco nei valori costituzionali ma molto nel diritto del nemico e che inventa emergenze a giustificazione di quelle che crea con la sua azione. Il libro di Anastasia, come il suo lavoro, sono tutto ciò che serve per irrobustire le fila di chi vorrà avversarle. Basta leggerlo e rileggerlo.