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di Grazia Zuffa

L’Unità, 17 maggio 2023

Invece di risolvere il dramma dei minori in cella, la destra vuol togliere i figli alle detenute recidive perché indegne. Un doppio stigma che colpisce tutte le donne. Una “festa della Mamma” fuori dalla retorica, con un di più di pensiero solidale: questo l’intento della campagna a favore delle donne incarcerate (in particolare le detenute insieme ai loro piccoli) intitolata “Madri Fuori: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”.

Fuori dallo stantio stereotipo del materno il 14 maggio scorso lo è stato davvero, nelle tante città e territori in cui la festa è stata occasione per andare in carcere per ascoltare la voce delle donne detenute. A Milano, Roma, Firenze, Bergamo, Genova, Reggio Emilia, Bologna, Trieste, Napoli e tante altre città, si sono recate in carcere parlamentari, consigliere regionali, garanti delle persone private della libertà, volontarie (le figure istituzionalmente abilitate a entrare in carcere); a loro si sono unite anche attiviste femministe e di movimenti e associazioni che si battono per i diritti. Si è discusso anche nei consigli comunali con ordini del giorno e mozioni di solidarietà (come a Roma e a Milano) e in tanti dibattiti per sensibilizzare al tema (come a Frosinone, Venezia, Torino).

La campagna è una risposta alla provocazione lanciata dal viceministro Cirielli in sede parlamentare, quando di recente in commissione alla Camera si stava cercando di risolvere il dolente problema dei “bambini dietro le sbarre”, costretti alla detenzione insieme alle madri detenute. E’ una questione annosa, cui ben due interventi legislativi hanno cercato di porre rimedio, la legge Finocchiaro nel 2001 e poi la legge 62 del 2011. Senza mai eliminarla però: al 30 aprile di quest’anno sono ancora ventidue i bambini imprigionati con le madri. E c’è da chiedersi il perché, visto che le donne sono in larghissima maggioranza condannate per reati minori, e dunque la detenzione in carcere potrebbe facilmente essere commutata in pene alternative sul territorio. Ciò peraltro avviene in molti casi, e infatti il numero dei bambini in prigione è andato diminuendo negli anni. Ma la piaga rimane e ne sono affette proprio le madri più povere - prive di domicilio stabile e di rete familiare che le sostenga - a vedersi negate le alternative domiciliari e dunque ad avere necessità di portare con sé i bambini in carcere.

Per tornare a quel dibattito in commissione parlamentare: proprio quando si sarebbe dovuto porre rimedio alla violazione dei diritti, dei bambini e delle madri, il viceministro Cirielli ha rilanciato in quella sede le norme più vergognose del disegno di legge da lui depositato nella precedente legislatura: che stabiliscono di togliere la responsabilità genitoriale (ancora denominata “patria potestà” nella lingua dei fautori di un passato patriarcale) alle donne condannate con sentenza definitiva. Con molti esponenti della maggioranza che si sono accodati, presentando emendamenti su quella linea. Non solo si è voltato il capo di fronte allo scandalo dei “bambini dietro le sbarre”, si è scelto quel pulpito per lanciare, materialmente e simbolicamente, un attacco alle loro madri: per il fatto stesso di aver commesso un reato, meritano anche lo stigma di “madri indegne” e “madri degeneri”. Che rimangano in carcere (insieme ai loro figli). E se sono recidive o “pericolose”, che stiano in prigione senza figli, con la minaccia della perdita della responsabilità genitoriale.

Non è difficile rintracciare in questa rappresentazione l’impronta della cultura patriarcale circa la “missione materna”, che le donne criminali tradirebbero andando contro la “natura” femminile. Un “doppio stigma” legato al reato, insomma. Si capisce allora perché quanto è successo in parlamento colpisca tutte le donne, per tramite delle madri detenute. Sotto attacco è anche l’idea di pena che guarda al reinserimento del reo/a, per i quali è fondamentale mantenere i contatti con i figli e con altri affetti.

Quanto allo stigma della “madre degenere”: se il segno del patriarcato appartiene alla storia “fuori le mura” (eccetto che in roccaforti di cultura maschilista reazionaria di cui il viceministro e suoi affini sono degni esponenti); “dentro”, dove il vento del cambiamento fatica a entrare, quel segno è più duro da sconfiggere. Perciò l’ombra della “cattiva madre” è una compagna persecutoria delle detenute, come testimoniano le voci dal carcere (raccolte nei volumi “Recluse”, 2014, e “La prigione delle donne”, 2020, Ediesse, Roma). Dicono ad esempio alcune educatrici, denunciando un clima a volte ostile nei servizi per l’infanzia: “Il fatto di aver compiuto un reato lo considerano una patologia da cui non si guarisce e per definizione equivalente a incapacità genitoriale” (La prigione delle donne, p.58). Colpiscono la profondità di “ragione e sentimento” con cui le detenute stesse si ribellano: “L’ho cresciuta per otto anni, adesso cos’è? Improvvisamente sono diventata una madre incapace?”; “Vogliono toglierci i figli che sono la nostra unica ragione di vita e l’unica speranza per un futuro diverso” (ibidem, p. 98).

La risposta al tentativo di rilanciare il “doppio stigma” è stata immediata e forte. La campagna Madri Fuori è stata costruita con un appello (promosso dalle donne della Onlus Società della Ragione societadellaragione.it/madrifuori) che ha raccolto più di cinquecento adesioni di singole e singoli, ma anche di associazioni (dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, a Antigone, al Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza-CNCA, Altro Diritto, Sbarredizucchero). Le tante visite alle donne detenute nella giornata del 14 maggio dimostrano che combattere gli stereotipi si può, anzi si deve. E che “solidarietà” non è parola vuota.