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di Davide Soattin

Corriere della Sera, 25 febbraio 2024

La vicenda risale all’8 e 9 marzo 2020. Accuse di incendio, danneggiamento, lesioni aggravate e resistenza. La Procura di Ferrara ha chiesto il processo per 37 persone, all’epoca dei fatti tutte detenute, oggi accusate a vario titolo di danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale, incendio e lesioni aggravate per la rivolta nel carcere ferrarese di via Arginone.

I disordini - La vicenda, scoppiata all’interno della prima, seconda e sesta sezione, risale all’8 e 9 marzo 2020, quando le misure restrittive imposte per contrastare il diffondersi della pandemia da Covid-19, tra cui il divieto di visite ai parenti, accesero gli animi dei ristretti nei penitenziari di tutta Italia. Tra i 37 ci sono nomi già conosciuti alle cronache giudiziarie cittadine come il 31enne nigeriano Egbogun Glory e il 41enne Afrim Bejazaku. Il primo è già stato condannato in primo grado a sette anni nel processo alla mafia nigeriana, il secondo invece risultò essere tra gli “amici” di Igor il Russo. Secondo il castello accusatorio ricostruito dalla pm Sveva Insalata, tutto ebbe inizio l’8 marzo quando, dalle 16.30 alle 21.15, usando violenza e minacce, e a volte ricorrendo a gesti autolesionisti, i detenuti avrebbero iniziato a ribellarsi con disordini e importanti danneggiamenti a vetri e finestre, usando stampelle e poi costruendosi mazze in metallo e in legno dopo aver divelto tavoli, biliardini e suppellettili di vario genere. Oltre che sui locali del penitenziario, distrutti e resi inutilizzabili, la loro rabbia si scagliò anche sui poliziotti penitenziari, che vennero strattonati, bersagliati, insultati e minacciati.

Gli incendi - In quella circostanza, nella sesta sezione, uno dei promotori della rivolta carceraria avrebbe poi appiccato un primo rogo a volto coperto, seguito da altri detenuti. Diversi i materiali reperiti per accendere il fuoco in punti ben precisi: coperte, lenzuola, tavoli, sgabelli da bruciare con olio da cucina. I detenuti si erano organizzati con ruoli e compiti ben precisi: chi doveva bloccare gli ingressi con una branda, chi percorreva il corridoio della sezione svariate volte al fine di motivare i rivoltosi a non mollare e continuare la loro protesta, e chi invece prometteva ai poliziotti che sarebbe giunta la fine per l’istituto. Venne anche appiccato un incendio che rese necessario l’intervento dei vigili del fuoco. Sempre il 9 marzo, sempre dentro la sesta sezione, un detenuto di nazionalità tunisina di 34 anni avrebbe aggredito un agente scelto della polizia penitenziaria, che stava spegnendo uno dei roghi accesi durante la rivolta. Lo avrebbe colpito al torace scagliandogli addosso una mazza di legno, provocandogli lesioni personali che gli valsero una prognosi di dieci giorni.

La mediazione - La situazione rientrò dopo due giorni, a seguito di una lunga e complessa opera di mediazione degli uomini della polizia di Stato e dei carabinieri. In tutto arrivarono quindici pattuglie e circa quaranta uomini in tenuta antisommossa che riuscirono a far desistere i detenuti, facendoli rientrare pacificamente nelle loro celle senza caricarli.

A quasi quattro anni da quei fatti, la vicenda è arrivata venerdì (23 febbraio) davanti al gup Carlo Negri del Tribunale di Ferrara, che ha rinviato per permettere alle difese di avere il tempo necessario per visionare i filmati della rivolta. Al momento non si è costituito parte civile il Ministero della Giustizia. Dei 37 per cui è stata avanzata la richiesta di rinvio a giudizio (inizialmente 38 ma nel mentre uno è deceduto), ci potrebbe essere qualche stralcio in quanto alcuni imputati risultano irreperibili o nel frattempo espulsi dal territorio nazionale. Il processo è stato aggiornato all’11 ottobre.