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di Elena Loewenthal

La Stampa, 7 luglio 2023

C’è qualcosa di profondamente distorto in un Paese in cui i diritti dell’individuo - i diritti primari, quelli di scegliere i confini della propria vita e dei propri affetti, e quelli che riguardano le garanzie fondamentali - sono affidati se non al caso certo a una contingenza, a una sorta di congiunzione astrale politica e geografica drammaticamente mutevole a seconda dei luoghi, dei momenti, delle voci chiamate in causa.

La procura di Savona, andando in controtendenza rispetto alle scelte di (purtroppo) tante altre realtà italiane, ha deciso di non impugnare la dichiarazione di nascita di un bambino, figlio di due madri, registrata in città il 28 marzo scorso. Il via libera è arrivato dal procuratore capo di Savona Ubaldo Pelosi, il quale ha ufficializzato l’iscrizione del figlio di Giulia e Roberta, che pertanto non dovranno avviare quel lungo, complesso e sfiancante procedimento legale di adozione cui sarebbe stata costretta una delle due madri.

Il tutto mentre a Padova, Milano e in altre città italiane succede, in casi analoghi, il perfetto contrario: fascicoli che si aprono, trascrizioni che si bloccano, situazioni anagrafiche che si complicano - tutto in nome di un’incertezza giuridica di cui fanno puntualmente le spese uomini, donne e bambini.

A proposito di incertezze, sofferenze gratuite e diritti calpestati con quell’algida disinvoltura di cui a volte la burocrazia e la giustizia sono capaci, il giudice del tribunale di Trieste Edoardo Sirza ha ordinato di accertare entro trenta giorni se sussistano le condizioni previste dalla sentenza Cappato della Corte Costituzionale (del 2019) per far accedere al suicidio assistito una donna di cinquantacinque anni affetta da sclerosi multipla, che ha iniziato la propria battaglia per un fine vite dignitoso e responsabile di sé ormai alcuni anni fa. Ancora il 4 novembre scorso aveva chiesto di accedere alla verifica per la morte assistita ai sensi della sentenza. Ma non le hanno detto né sì né no: non hanno risposto. A fronte di questa inadempienza, la giustizia ha deciso di prendere tempo, seppure “soltanto” (si fa per dire) trenta giorni.

Ecco dunque come su due fronti così lontani, anzi opposti, della vita di ognuno di noi, l’applicazione di diritti fondamentali e necessari come quelli di una dignità anagrafica alla nascita e del rispetto della volontà di morire perché la vita non ti dà altra scelta, sono affidati all’arbitrio di decisioni che dipendono da variabili imperscrutabili: la geografia dei tribunali, la capacità di esercitare l’empatia da parte di chi deve mettere una firma, la volontà di interpretare la legge in un modo piuttosto che in un altro. E, soprattutto, la presenza o meno di quel senso di responsabilità che ci vuole per provare a mettersi nei panni del prossimo, sia esso una coppia di madri e un bambino o una donna che soffre le pene dell’inferno.

Di strada da fare i diritti in questo nostro Paese ne hanno ancora tanta: essi sono il terreno su cui si gioca l’energia di andare incontro al futuro, di cambiare nella direzione giusta. Ma non è ammissibile che questa strada sia una rete capillare e contraddittoria disseminata in tante decisioni del momento, buone o cattive che siano.