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di Lucio Luca

La Repubblica, 3 febbraio 2023

Mafiosi, trafficanti e assassini. Abbiamo incontrato i detenuti al 4-bis, quelli che non possono sperare in alcun beneficio di legge. Per capire, ora che di loro molto si parla, cosa significa essere sepolti vivi. La casa dei sepolti vivi è in un supercarcere di periferia. Ha un nome secco, gelido, AS1, la sigla che indica il livello massimo di sicurezza per gente che ha commesso crimini indicibili e merita di scontare condanne pesantissime. Ci sono mafiosi e camorristi, boss della ‘ndrangheta e trafficanti internazionali di droga, estortori e rapinatori seriali. E assassini, certo, che sono rinchiusi qui a Rebibbia da venti, trenta, anche quarant’anni e in questo tempo non hanno mai usufruito di un permesso premio, una giornata da passare con la famiglia o qualche ora di semilibertà perché hanno perso tutto, anche il diritto alla speranza.

Da qualche tempo la politica si è accorta di loro. Sono i detenuti “ostativi”, quelli che non hanno mai collaborato con lo Stato e pur dissociandosi dalla loro precedente vita e dimostrando di essere persone diverse, lontane dal contesto criminale, non hanno mai potuto sperare in un beneficio di legge. Possono ottenerlo gli ergastolani che hanno ucciso, anche più di una volta. Ma non chi, nella sua cartella personale, si ritrova scritta una data inverosimile: fine pena 31-12-9999. Che non è un refuso ma un macabro scherzo della burocrazia.

Tecnicamente si definiscono detenuti al 4-bis, un articolo modificato dopo le stragi di Palermo del 1992: legislazione emergenziale, si disse, per costringere i mafiosi, una volta arrestati, a diventare testimoni di giustizia ed evitare così di passare tutta la vita dietro le sbarre. Carcere ostativo che è cosa ben diversa dal cosiddetto carcere duro, il 41-bis, riservato ai grandi boss delle organizzazioni criminali. L’ultimo dei quali, Matteo Messina Denaro, è finito in galera qualche settimana fa, dopo più di trent’anni di latitanza. Il 41-bis è quello inflitto anche all’anarchico Alfredo Cospito, condannato a dieci anni per la gambizzazione del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi, e accusato di aver piazzato un paio di bombe davanti a una scuola per carabinieri: dopo sei anni di carcere in regime di alta sicurezza, Cospito, primo e unico anarchico della storia al 41-bis, ha cominciato uno sciopero della fame e nel momento in cui scriviamo le sue condizioni sono gravi.

Chi ha una pena ostativa può vivere insieme agli altri detenuti e partecipare alle attività all’interno del penitenziario. Ma per ottenere un permesso, fino a non molto tempo fa, doveva pentirsi e fare nomi e cognomi dei componenti del suo clan. Nel 2021 la Suprema Corte aveva definito il 4-bis incompatibile con la Costituzione, il governo Meloni ha rimandato la palla alla Cassazione che, chiamata a decidere qualche giorno fa, ha rinviato tutto, ancora una volta, al prossimo 8 marzo. In ogni caso, il centrodestra ha già irrobustito i parametri per accedere ai benefici e così il miraggio di un premio, anche dopo venti o trent’anni di “branda”, come dicono i detenuti, sembra sempre più lontano.

“Non stupitevi se ci si impicca” - Di ergastolo ostativo, fine pena mai e voglia di ricominciare si è parlato dentro le mura di Rebibbia in occasione della presentazione di un libro scritto da Carmelo Sardo, giornalista del Tg5 attento a questi temi. Il romanzo si intitola Dove non batte il sole e racconta la storia di un giovane universitario finito, al termine di un’inchiesta piena di errori, proprio al 4-bis. Nel piccolo teatro della casa circondariale romana si sono ritrovati un centinaio di detenuti, alcuni dei quali in regime “Alta Sicurezza 1”, AS1, appunto, e per molti di loro c’è stata la possibilità di sfogare l’impotenza di fronte a un provvedimento che non riescono ad accettare. Fabio, detto “l’avvocato”, Giuseppe, che dietro le sbarre si è già preso quattro lauree, Paolo, che ha sbagliato a 16 anni e da allora non conosce cosa sia la libertà, Alessandro che continua a gridare la sua innocenza. Uomini che sembravano perduti ma che, da quando hanno messo piede qui dentro, hanno dimostrato che cambiare si può.

Fabio Falbo è “lo scrivano” di Rebibbia. Ha una cinquantina di anni ed è accusato di avere partecipato a tre omicidi di ‘ndrangheta. Lo chiamano “avvocato” perché si è messo a studiare e si è laureato in giurisprudenza con una tesi sul concorso esterno in associazione mafiosa. Ha pure partecipato a un film dei fratelli Taviani premiato al Festival di Berlino ma mai, da quando è stato arrestato, ha messo piede all’esterno: “Ho chiesto un permesso per discutere la tesi nella sede della Camera Penale di Roma, ma niente. E le scene per il film le ho dovute girare qui a Rebibbia, il giudice di sorveglianza non si è intenerito. Capisco che lo Stato dopo le stragi di mafia abbia deciso di usare il pugno di ferro. Ma noi mica abbiamo fatto stragi, possibile che ormai tutti i reati o quasi rientrino nel 4-bis? Perché trent’anni dopo l’“emergenza” paghiamo noi che con quelle storie non c’entriamo nulla? Io ho quattordici anni di branda e devo arrivare a ventidue”. Il tribunale continua a rigettare le istanze in cui lui sostiene di non avere a che fare neppure con quei tre omicidi. “Nel frattempo mi pare di aver comunque dimostrato di aver intrapreso un percorso di recupero. Ma mi rispondono che, poiché non ammetto le mie colpe, non ho avviato un processo di revisione psicologica. Di più, sai cosa ha scritto il giudice? Che è vero, mi sono laureato, ho partecipato ad alcuni film, gli altri detenuti mi considerano un punto di riferimento. Ma, tutto questo, ha spiegato rigettando la mia richiesta, l’avrei fatto soltanto per edonismo personale. Edonismo personale, non scherzo. E io, pur essendo al carcere ostativo, ho comunque una data di fine pena. E chi il fine pena non ce l’ha? Poi ci stupiamo se in galera la gente si impicca”. Già. Il 2022 è stato l’anno record dei suicidi dietro le sbarre: 84, mai si era arrivati a una cifra così alta. Praticamente uno ogni quattro giorni. Negli ultimi dieci anni, secondo l’associazione Antigone, si sono uccisi 583 carcerati. Quasi la metà erano uomini e donne con particolari fragilità personali o sociali.

“Meglio la pena capitale” - Giuseppe Perrone è un ergastolano salentino accusato di aver fatto parte della Sacra Corona Unita. L’ultima delle sue quattro lauree l’ha conseguita a Tor Vergata con una tesi in Editoria, informazione e comunicazione dal titolo Gli abissi di una pena: a partire da Primo Levi: voto 110 e lode e commissione in piedi per un detenuto modello che si trova in galera da trent’anni esatti per l’omicidio di uno studente. Anche lui dice di essere innocente, che c’è stato uno scambio di persona, che prima o poi la verità verrà a galla. Nel frattempo sconta il suo fine pena mai: “L’errore più grande è credere che l’uomo che sbaglia è, e sarà sempre, il suo reato” dice. “Lo Stato ci chiede un baratto: tu mi dai un tuo complice e io ti regalo la libertà. Poi, però, spesso i pentiti sono i primi a tornare a delinquere. Perché i giudici non valutano invece il percorso che una persona fa dietro le sbarre? Eppure tutte le statistiche lo dicono: quando c’è la cultura o il lavoro, la recidiva si abbassa notevolmente. Date ai detenuti cultura e lavoro, solo così potrete recuperarli come chiede la Costituzione. Io ho studiato, mi sono laureato, ma per voi non merito nemmeno un’ora di permesso. Mi spiegate, allora, che se ne fa lo Stato di uno come me?”.

Per molti l’ostativo è come una condanna a morte. “Anzi peggio” racconta Paolo, una vita perduta tra i vicoli di Napoli, la madre morta quand’era bambino, il padre sparito. “Sono cresciuto in un contesto maledetto, ho sbagliato e non chiedo sconti. Davanti a me ho ancora trent’anni di branda, mi sono messo a leggere, oggi credo di aver capito il vero valore della vita. Ma non chiedetemi di collaborare: se accuso qualcuno ed esco, dopo che ne sarà di me? Piuttosto, mi chiedo se l’arresto di Messina Denaro cambierà ancora una volta le carte in tavola: magari qualcuno non se la sentirà di concedere sconti, e a rimetterci saremo tutti”.

Una sigaretta sotto gli occhi dei secondini prima di rientrare in cella, il piacere di scambiare qualche parola “con uno di fuori”, la voglia di far sentire la propria voce. Alessandro sa che, se le cose non cambiano, a Rebibbia ci resterà fino all’ultimo giorno. Fine pena 9999 anche per lui, possibilità di benefici zero: “L’ergastolo ostativo” dice schiacciando il tabacco in una cartina improvvisata “è una condanna a morte. E in un Paese democratico non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Eppure siamo qui e questi pensano pure a come inasprirlo. Meglio la pena capitale, allora. Meglio. Molto meglio che morire ogni giorno qui, dietro le sbarre, senza nemmeno una speranza di futuro”.