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di Francesco Petrelli*

L’Unità, 3 novembre 2023

Che si dovesse provvedere ad un superamento della legge Bonafede che prevedeva l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, frutto del giustizialismo pentastellato, risultava piuttosto evidente. Che, tuttavia, l’istituto della improcedibilità, risultato di un compromesso con la parte populista residua della nuova compagine di maggioranza del nuovo governo tecnico, fosse la soluzione corretta ne hanno dubitato in molti.

Che i due diversi “orologi”, uno impostato sui tempi del reato (fino alla sentenza di primo grado) ed uno impostato sui tempi del processo (nelle fasi di impugnazione successive), fossero razionalmente e tecnicamente incompatibili era stato infatti da subito denunciato. Ma se la riforma voluta dalla Ministra Cartabia aveva un pregio, che la faceva comunque accettare come un “male necessario”, era il fatto che aveva comunque voltato pagina sullo scempio giustizialista del “fine processo mai”.

Tornati sui binari di un governo politico, si trattava oramai di mettere mano a una riforma organica della prescrizione che rispondesse ad alcuni fondamentali parametri costituzionali, che vanno dal diritto alla vita a quello della ragionevole durata del processo, dalla presunzione di innocenza alla finalità rieducativa della pena. Tuttavia, la proposta di riforma definita “garantista” sulla quale la maggioranza avrebbe raggiunto un accordo, in base a qualche provvidenziale emendamento, ci sembra che non risponda a quella vera esigenza di razionalizzazione e di riequilibrio dei tempi della prescrizione. Sarebbe infatti necessaria una complessiva operazione riformatrice da compiere al riparo dagli estremismi ideologici e dagli slogan che da tempo inquinano la discussione su questo ineliminabile istituto, muovendo dalla indiscutibile constatazione che si tratta di tempi che per la maggior parte dei reati risultano incongruamente ed irragionevolmente lunghi.

Si tratta infatti di termini, compresi quelli previsti dalla attuale riforma, che non tengono in alcun modo conto né dei tempi in concreto dei singoli processi, né della effettiva complessità dell’accertamento del reato. Si tratta di termini (che vanno mediamente dai 15 ai 40 anni) che in alcun modo tengono conto della compatibilità con la durata della vita stessa delle persone che avrebbero diritto di sapere in meno di quattro lustri se dovranno scontare una pena. Termini altrettanto incompatibili con le esigenze minime di una società civile, che non può a sua volta attendere decenni per sapere se un suo amministratore sia stato corrotto e se un impianto produttivo debba essere confiscato. Da più parti si evidenziano le statistiche che attestano una sostanziale decompressione del sistema processuale e la sussistenza di condizioni che consentirebbero di ricondurre la durata della prescrizione nei parametri accettabili corrispondenti a medie europee di durata dei processi di dieci anni.

Non si comprende, ad esempio, per quale ragione un processo per fatti di bancarotta di non complesso accertamento debba durare oltre venti anni, un periodo di tempo corrispondente a circa la metà della vita media attiva di un imprenditore. Per la maggior parte di questi reati la prescrizione ha termini così lunghi che spesso è solo la pendenza del processo a mantenere una qualche flebile memoria del fatto, mentre in una visione sostanzialistica della prescrizione dovrebbe essere il contrario.

Ma quello che emerge ad un’analisi finale non è altro che l’evidenza di un sistema profondamente illiberale che continua a scaricare i costi dell’inefficienza della macchina processuale sull’imputato, consegnato dalla legge alla pena di un processo sottratto alla garanzia costituzionale della ragionevole durata.

*Presidente dell’Unione camere penali italiane