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di Donatella Stasio

La Stampa, 2 aprile 2024

L’intolleranza del potere al dissenso è sempre stata trasversale a tutti gli schieramenti politici. Ma oggi c’è un qualcosa di più e di diverso: il dissenso è “sovversivo”, persino quando si manifesta con richiami puntuali alla Costituzione. E allora ecco che anche chi della Costituzione è il massimo garante, Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale, viene tacciato di partigianeria politica. Accade sempre più spesso con le sentenze della Consulta, non solo ignorate ma - ed è un altro tratto dello spirito politico dei tempi - boicottate, manipolate, delegittimate. Emblematico quanto avvenuto al Senato sul fine vita: martedì scorso, complice lo stop alla discussione dei Ddl dell’opposizione imposto dall’assenza del governo, è spuntato un testo dei forzisti Paroli, Gasparri, Zanettin con tanto di “lezioncina” sulla leale collaborazione istituzionale: “La Corte non può assegnare al Parlamento i compiti da svolgere e persino il tempo entro cui svolgerli”, sentenziano gli azzurri, che danno voce all’insofferenza della maggioranza verso la Corte e i suoi ripetuti richiami al Parlamento, a partire dal 2018, perché dia seguito alle sue decisioni sul suicidio assistito (l’ultimo è del presidente Augusto Barbera, che peraltro è un assoluto difensore delle prerogative parlamentari). E fin qui, pazienza. Ma non sono solo parole: il Ddl azzurro, calpestando quelle sentenze (già boicottate nel quotidiano), marcia in senso ad esse diametralmente contrario.

L’intolleranza del potere al dissenso oggi produce anzitutto un clima di tensione, che talvolta trasmoda in odio e manganelli, talaltra nell’attacco personale oppure in raffiche di querele e in maldestre censure, anche di libri, per silenziare opinioni o narrazioni che vanno in direzione opposta al “mondo al contrario”, la direzione della Costituzione. È un paradosso, ma è il paradosso dei tempi che viviamo. Nel libro “Il combattente. Come si diventa Pertini” (Rizzoli, 2014), Giancarlo De Cataldo racconta l’incontro segreto del 1974 fra Sandro Pertini, all’epoca presidente della Camera, e tre “pretori d’assalto” poco più che trentenni, Mario Almerighi, Adriano Sansa e Carlo Brusco. I tre avevano chiesto di vedere in privato Pertini per informarlo di uno scandalo che di lì a poco sarebbe esploso: lo scandalo petroli, storia di tangenti ai partiti di governo in cambio di leggi favorevoli.

Pertini li ascolta, compulsa le prove che gli hanno portato, ed eccola la reazione del vecchio combattente - scrive De Cataldo -. Pertini piange. Due lacrime, discrete, asciutte, verrebbe da dire, non fosse un controsenso. Ma è così che le ricorda chi era presente a quell’incontro: lacrime asciutte. I tre giudici sospirano di sollievo - continua De Cataldo -. Nessuna copertura, nessun distinguo, nessun cedimento, nessuna ipocrisia da parte di Pertini. All’opposto, l’indignazione espressa con parole di fuoco. “Ma com’è possibile che prima d’ora nessuno si sia accorto di niente? Dov’erano le forze di opposizione? Perché non hanno funzionato i meccanismi di controllo? Questa democrazia l’abbiamo conquistata con il sangue e la galera. Non possiamo correre il rischio di perdere la libertà per colpa di chi la usa per rubare!”. All’indignazione, segue l’incitamento. “La forza della democrazia siete anche voi. Andate avanti. Senza riguardi per nessuno. Io sarò sempre al vostro fianco!”.

Le parole, la postura, l’emozione di Pertini dicono molto della distanza con l’attuale classe politica dirigente. Riflettono un sentimento ad essa estraneo, il sentimento costituzionale, da cui è nata la nostra democrazia, il sistema dei pesi e dei contrappesi necessario ad arginare gli arbitrii del potere e a garantire i diritti di libertà, il pluralismo, le minoranze. “Questa democrazia l’abbiamo conquistata con il sangue e la galera”, ricorda Pertini, che come tanti antifascisti la galera l’aveva conosciuta e che perciò si sentiva garante sia dell’integrità morale delle istituzioni sia del perseguimento dei valori dell’antifascismo, di cui si fece tramite con le generazioni postbelliche. Un testimone che Sergio Mattarella tiene ben saldo nelle sue mani.

È grazie al sacrificio della vita e della libertà di combattenti antifascisti come Pertini che è nata la Costituzione; ed è grazie al loro esempio e al loro infaticabile lavoro di alfabetizzazione, di cui oggi si fa carico anche Mattarella, che si è tenuta viva la cultura antifascista della Costituzione. Che, però, la nostra classe dirigente si rifiuta di riconoscere e di qualificare proprio nella sua essenza - l’antifascismo - trasformando, così, in un atto formale il giuramento solenne sulla Costituzione con cui ha assunto cariche e responsabilità pubbliche. Lo stesso giuramento che chiediamo agli stranieri venuti in Italia in cerca di una democrazia, non una qualunque, meno che mai la “democrazia illiberale” di Viktor Orban, ma quella che riconosce libertà e giustizia, solidarietà e dignità, uguaglianza e pluralismo, inclusione e rispetto. Persone che chiedono di diventare cittadini italiani ed europei, e dai quali pretendiamo il rispetto della nostra cultura e delle nostre regole. Ebbene, anche di fronte a loro, la nostra classe dirigente rinuncia ad essere esempio e memoria di quella cultura. “Straniera in patria”.

Del resto, la rimozione delle radici antifasciste è inevitabile per chi è animato da un’altra cultura, e infatti dichiara di voler costruire un’altra Repubblica. Dice Pertini ai tre pretori: “La forza della democrazia siete anche voi. Andate avanti senza riguardi per nessuno. Io sarò sempre al vostro fianco”. In queste parole c’è la fiducia nell’indipendenza della magistratura, nella separazione dei poteri (quella vera, e non alla Orban) ma anche nella leale collaborazione istituzionale. Nessun potere deve invadere l’ambito degli altri ma ciascuno faccia fino in fondo il proprio dovere e collabori con gli altri. La cronaca, però, non va in questa direzione. Basti pensare ai tentativi di delegittimazione dei magistrati: gli attacchi alle decisioni sgradite, la pretesa che i giudici non parlino, e ora anche l’insinuazione, con i test psicoattitudinali, che siano o possano essere degli squilibrati. Ma è emblematico anche il modo in cui Governo e Parlamento si relazionano con la Consulta.

Anzitutto, in entrambi i casi viene negata, facendola apparire, appunto, “sovversiva”, la loro naturale funzione “contromaggioritaria”. Li si vorrebbe appiattiti sullo spirito politico dei tempi - ma solo su quello attuale - come voleva il fascismo. La Corte costituzionale, che secondo Piero Calamandrei è la “viva voce” della Costituzione, è ormai una voce nel deserto tanto è ignorata da Governo e Parlamento che, proprio in virtù della leale collaborazione, dovrebbero invece darle ascolto, e soprattutto seguito, per rendere effettivi i diritti fondamentali.

Così non è. Intendiamoci: l’inerzia del legislatore viene da lontano. Ma rispetto ad altre stagioni, oggi abbiamo in più il fanatico ostruzionismo della maggioranza: dal riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali al fine vita, dal doppio cognome all’affettività in carcere, e via via, la Corte viene cancellata o rimossa, e con essa i diritti. Si boicottano le sue decisioni sgradite, si manipolano per sostenere il contrario di ciò che dicono o si delegittimano con ogni strumento. Piccole, omeopatiche erosioni democratiche, che scivolano nell’indifferenza generale, in un mondo che è sempre più un “mondo al contrario”.

Il costituzionalista Gaetano Azzariti si chiede se la Consulta e il Quirinale non siano rimasti i soli ad operare in nome della Costituzione. Non può dirsi altrettanto, infatti, delle altre istituzioni. Che quando si muovono, fanno persino peggio, come testimonia il blitz sul fine vita. E allora, ecco l’altra, inevitabile domanda: “Quanto reggeranno, isolati, i garanti della Costituzione?”.