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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 5 marzo 2022

Dopo i primi commenti seguiti alla notizia dell’inammissibilità del referendum sull’art. 579 del codice penale, che sanziona l’omicidio del consenziente, è ora possibile esaminare la sentenza della Corte costituzionale con la sua motivazione.

E si può confermare l’impressione iniziale, che la decisione della Corte sia conseguenza inevitabile della impostazione che essa aveva assunto nella sentenza del 2019, che dichiarava parzialmente incostituzionale l’art. 580 che punisce l’aiuto al suicidio. Le due ipotesi, infatti, sono dalla Corte riconosciute come strettamente finitime, condizionate come sono da problemi legati agli stessi valori e diritti.

La Corte aveva ricostruito un nuovo sistema definendo l’area delle condizioni di salute in cui doveva venire a trovarsi chi aveva deciso di morire, ma, non potendo provvedere da sé, chiedeva e otteneva l’aiuto altrui. Secondo la Corte deve trattarsi di persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, che sia affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Solo in quelle condizioni l’aiuto al suicidio non sarebbe punibile. Fuori di esse nulla conterebbe la volontà della persona.

Diversi argomenti critici sono stati sviluppati, a cominciare da quello fondamentale che deriva dal mancato riconoscimento del diritto alla autodeterminazione, anche sul come e quando por fine alla propria vita: diritto riconosciuto in Europa sia dalla Corte europea dei diritti umani, che dalle Corti costituzionali tedesca e austriaca. Inoltre l’importanza assegnata dalla Corte italiana alla delimitazione dell’area entro la quale la volontà della persona può essere riconosciuta, aveva distratto l’attenzione dalla questione fondamentale che riguarda la “qualità” della volontà. La Corte ne aveva trattato rinviando alla disciplina legislativa del consenso informato ad ogni trattamento sanitario, che può esser negato da parte di chi sia “capace di agire”, anche quando ne segua la morte.

La Corte, con la sentenza sul referendum conferma la sua posizione, che nega una generale disponibilità della propria vita. Tuttavia questa volta la Corte affronta la questione della volontà di morire, che è il cuore di una discussione che si fondi sul diritto alla autodeterminazione. La Corte constata che con l’eventuale esito positivo del referendum sarebbe rimasto in vigore il solo limite del fatto commesso “contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. In tal modo non sarebbero riconosciuti le condizioni e i limiti che la Corte aveva sviluppato nella sentenza sull’aiuto al suicidio.

Ma la Corte va oltre e, riempiendo una carenza della sentenza sull’aiuto al suicidio, scrive ora che “la liberalizzazione del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere)”.

In tal modo la Corte segnala esigenze che il semplice rinvio alle disposizioni di legge sul consenso informato non sono in grado di soddisfare. E si tratta di temi che già aveva affrontato chi, a differenza della Corte costituzionale, aveva impostato l’esame della questione in termini di rispetto della autodeterminazione. Si era in proposito osservato che il profilo medico psicologico dovrebbe essere valutato collegialmente da specialisti indipendenti (esigenza questa ignorata dalla legge sul consenso informato). Sono tutt’altro che semplici sia la nozione di autodeterminazione, sia l’accertamento della sua realtà concreta in ciascuna delle infinitamente diverse vicende.

L’accertamento della libertà della decisione di morire e di chiedere l’aiuto di altri deve essere quanto più possibile approfondito. È richiesta l’opera di specialisti, di diversa formazione: non solo psichiatrica o psicologica, ma anche sociale. Occorrono procedure rigorose di accertamento della volontà dell’interessato, non solo per escluderne aspetti patologici, ma anche per dialogare, prospettando concretamente vie di uscita (dalle cure palliative e terapie antidolore nel caso di sofferenze fisiche, a cure e soluzioni sociali quando si tratti di sofferenze di altra natura). Non si otterrà sempre un ripensamento, poiché le alternative possono essere rifiutate, ma almeno si potrà effettivamente parlare di libertà e di autodeterminazione.

In questi giorni, su una legge di disciplina dell’aiuto al suicidio lavora il Parlamento. Il progetto in discussione riprende il contenuto della sentenza del 2019 della Corte, restringendo ancor più l’area del rispetto della volontà di chi vuole morire. Il progetto non considera l’ipotesi finitima dell’omicidio del consenziente. Ma dopo la sentenza relativa al referendum anche quella ipotesi deve ora essere considerata, insieme alla cura dell’accertamento della volontà di morire considerata nel suo più ampio e impegnativo contenuto.