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di Valentina Petrini

La Stampa, 4 dicembre 2023

La “sentenza Cappato” non trova ancora piena applicazione in Italia. Ora anche i familiari si autodenunciano: “Ho disobbedito per mia sorella Margherita”. “Il 27 novembre è stata la nostra ultima notte insieme. La mattina dopo, mia sorella ha ingerito da sola il farmaco letale e in pochi minuti si è addormentata ed è morta. È finita, così, in Svizzera, la sua esistenza terrena, lontana da casa, dagli affetti più cari, lontano dai luoghi in cui siamo cresciuti”. Paolo Botto non trattiene le lacrime mentre racconta chi era sua sorella Margherita Botto e perché il 28 novembre è morta a Zurigo e non nel suo letto a Milano.

Classe 1949, insegnante di Lingua e Letteratura francese in varie università, traduttrice sin dalla fine degli anni Settanta di Emmanuel Carrère, Alexandre Dumas, Stendhal, Fred Vargas e molti altri, Margherita è l’ennesima cittadina italiana condannata all’esilio della morte a causa dell’assenza nel nostro paese di una legge organica sul fine vita. Il Parlamento tace da decenni. Idem il governo Meloni. Eppure, lo ha confermato anche il Censis nel 57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese: il 74% dei cittadini italiani è favorevole all’eutanasia. Margherita è arrivata in Svizzera grazie a suo fratello e ai volontari di Soccorso Civile, associazione fondata nel 2015 da Marco Cappato, insieme a Mina Welby e che oggi conta più di trenta volontari che offrono appoggio alle persone che hanno bisogno di informazioni, assistenza logistica e finanziaria, per ottenere aiuto medico alla morte volontaria. Chi disobbedisce accompagnando qualcuno a morire all’estero rischia un processo e una condanna, fino a 12 anni per istigazione e aiuto al suicidio. Ma la vera novità politica dei casi che stiamo raccontando è che a disobbedire non sono più soltanto attivisti e volontari, in prima fila ci sono i parenti dei malati terminali. Comuni cittadini pronti a farsi carico delle conseguenze legali della loro disobbedienza pacifica e nonviolenta per amore.

Per Margherita Botto è andata così: 74 anni, ad agosto scorso si sveglia con uno strano gonfiore al collo. Trombosi molto estesa alla giugulare destra. La causa è in realtà una massa di linfonodi particolarmente gonfi che premono appunto sulla giugulare. A settembre il referto istologico: adenocarcinoma, tumore aggressivo al terzo stadio, non operabile. “Margherita mi ha guardato e mi ha detto: “Non voglio accanimento terapeutico. Voglio morire senza soffrire”.

Margherita ai medici non chiede nemmeno qual è la sua aspettativa di vita. È ben informata. Inoltre ha già preso una decisione: vuole staccare la spina. Ma in Italia non può morire quando decide lei. Non può sottrarsi all’agonia. Per questo, scrive alla Dignitas, tra le più note associazioni internazionali che ammettono per l’aiuto alla morte volontaria a Zurigo anche persone provenienti dall’estero. Paolo contemporaneamente contatta Marco Cappato e con l’aiuto di Soccorso Civile, organizza il trasferimento in ambulanza privata da Milano a Zurigo per sua sorella. Nel frattempo Margherita fa la prima e la seconda dose di chemio. “Da cui esce devastata. Con i globuli bianchi sotto la soglia di sicurezza”. Non cammina più, non dorme, non riesce a stare sdraiata, solo seduta, giorno e notte. Si becca pure il Covid. Lei esausta ripete: voglio morire serena. “La ragione per cui sin dall’inizio ho detto a Marco Cappato che ero disponibile alla disobbedienza civile - spiega Paolo - era proprio per il fatto che se fosse stato possibile Margherita si sarebbe congedata dalla vita tranquillamente a casa sua. Ho anche pensato a tutte quelle persone nello stesso stato di mia sorella calpestate da questa nazione, repubblica delle banane casualmente finita in Europa”.

Per consentire a Margherita di morire a Zurigo, Paolo versa 12 mila euro, “chiaramente una cifra non alla portata di tutti”. Ma non c’era alternativa: “Né lei e né io avevamo speranza di poter ottenere l’aiuto alla morte volontaria a Milano. In quei giorni, infatti, era uscita la notizia di Sibilla Barbieri e della battaglia persa da questa donna per farsi riconoscere a Roma i suoi diritti civili”. Sibilla Barbieri romana, scrittrice, produttrice, sceneggiatrice, malata oncologica terminale con metastasi in varie parti del corpo, è morta a Zurigo il 31 ottobre dopo aver trasformato la sua fine in un atto politico. Il 6 novembre suo figlio Vittorio Parpaglioni, varca la soglia della caserma dei carabinieri e si autodenuncia per aver accompagnato insieme a Marco Perduca, ex senatore dei radicali, membro dell’Associazione Luca Coscioni, sua madre a morire in un paese straniero. Vittorio è stato il primo parente in Italia ad aver compiuto un gesto simile, di fatto aprendo la strada alla disobbedienza di Paolo e a chissà quanti altri in futuro. “Mi sono autodenunciato come Vittorio - racconta Paolo - per aver organizzato il trasferimento di mia sorella in un altro Paese in cui i suoi diritti sono stati rispettati. Non me ne pento. Ringrazio Cappato e Cinzia Fornero di Soccorso Civile che ha disobbedito con me accompagnando in ambulanza mia sorella a Zurigo”.

Insomma due donne, Sibilla Barbieri e Margherita Botto, che muoiono a distanza di due settimane, entrambe in una clinica Dignitas, tramite suicidio assistito. Due donne che avrebbero invece voluto congedarsi dalla vita nella loro casa. Un figlio e un fratello che con la loro disobbedienza hanno lanciato una sfida allo Stato: arrestateci, condannateci.

La nuova stagione di disobbedienze di cui stiamo parlando nasce per un motivo specifico: rendere evidente che in diverse regioni d’Italia oggi la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, sul caso Cappato/Antoniani che ha introdotto il diritto, per le persone in determinate condizioni di malattia, di ottenere, a seguito delle verifiche mediche effettuate dal Sistema sanitario nazionale, l’aiuto alla morte volontaria, non è rispettata. Margherita e Sibilla sono solo gli ultimi casi.

Federico Carboni è stato il primo a chiedere, nel 2020, la verifica delle sue condizioni ed è stato anche il primo a scontrarsi con un sistema palesemente impreparato, disattento, a tratti violento. “L’Asur Marche disse a Federico che la sentenza costituzionale Cappato/Antoniani aveva solo depenalizzato un fatto di reato ma senza una legge il suicidio assistito non era praticabile in Italia. Falso” spiega Filomena Gallo, segretaria nazionale della Luca Coscioni, nonché legale di Margherita, Sibilla, Federico e tutti i malati che si sono rivolti a loro. “Le sentenze della Corte Costituzionale hanno valore di legge e vanno rispettate. Punto. Invece Federico ha dovuto lottare quasi due anni tra diffide, ricorsi, esposti”.

Dopo Federico stessa sorte è toccata a Fabio Ridolfi. “Nonostante fosse in possesso di tutti i requisiti e nonostante le verifiche del Servizio sanitario nazionale avessero avuto esito positivo - è sempre Filomena Gallo - a causa di ostruzionismi burocratici, è morto come non avrebbe voluto, cioè tra spasmi dinanzi alla sua famiglia come racconta il fratello, per l’ennesimo ritardo della sua Asl”.

E poi c’è Gloria in Veneto, Anna in Friuli Venezia Giulia, Laura Santi in Umbria. In Friuli Venezia Giulia e in Umbria, in particolare, “è stato necessario ricorrere ai Tribunali anche solo per ricevere le verifiche delle proprie condizioni”. Cioè le Asl si rifiutano in alcuni casi anche solo di valutare le domande che ricevono. Nel Lazio, infine, nessuno è stato ad oggi mai autorizzato ad accedere al suicidio assistito. Solo il Veneto è un caso a parte: la prima regione in Italia ad aver dato applicazione completa alla sentenza costituzionale senza la necessità di un ordine del Tribunale e senza discriminazioni tra tipologie di malati, quindi accogliendo anche le richieste di pazienti oncologici. Nonostante Sibilla Barbieri abbia rivolto - prima di morire - un appello pubblico a Parlamento e Governo affinché le discriminazioni in atto fossero rimosse, ad oggi né Giorgia Meloni né Elly Schlein hanno raccolto il testimone e detto chiaramente cosa pensano in merito.

Solo Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio, è stato costretto a riferire in Consiglio regionale sul caso di Sibilla Barbieri. Rocca ha difeso la commissione aziendale della Asl Roma 1 che ha negato a Barbieri il permesso al suicidio assistito anche quando le sue condizioni stavano peggiorando motivando i vari perché in una relazione. “La relazione presentata è controversa, manipolatoria e fuorviante - commenta Francesca Re, avvocata che insieme a Filomena Gallo difende i familiari di Sibilla che hanno denunciato per questo diniego la Asl Roma 1 -. Rocca dice che Sibilla Barbieri avrebbe interrotto i trattamenti nel 2023 senza però specificare che questa interruzione non nasce da un capriccio di Sibilla. È stata decisa di comune accordo con i suoi medici curanti per assenza di prospettive di guarigione. Rocca riferisce anche che la terapia antalgica non è un trattamento di sostegno vitale. Non spiega perché la Asl non abbia valutato la progressione veloce della malattia e perché non si è precipitata a verificare il peggioramento delle condizioni di salute di Sibilla. Perché non ha tenuto in considerazione che il Comitato etico aveva invece dato parere favorevole al suicidio assistito di Sibilla Barbieri”.

Vedremo come finirà. Ad oggi l’unica certezza è l’indifferenza della politica, per paura certamente di dover prendere una posizione pubblica su un tema scottante su cui i partiti non hanno mai, nemmeno a sinistra, dimostrato di essere indipendenti e laici.