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di Pietro Mecarozzi

La Nazione, 22 novembre 2023

A Sollicciano i percorsi di lavoro sulla violenza di genere. Qualcuno si pente, piange, si sfoga. Altri rimangono impassibili, non proferiscono parola, lo considerano una perdita di tempo. C’è anche, però, l’uomo che argomenta, giustifica e minimizza l’aggressione che ha perpetuato nei confronti di sua moglie, della sua fidanzata, di una sconosciuta o peggio ancora di sua figlia o di una bambina. Accade tutta in una stanza isolata dentro alle carceri di Firenze, Prato e Pistoia: i detenuti maschi che hanno commesso violenze (fisiche o sessuali) nei confronti di una donna - o di minori - vengono divisi in gruppi, secondo la gravità del reato, e approcciati a un percorso terapeutico che ha l’obiettivo di analizzare e approfondire quanto hanno commesso.

A coordinare questo progetto (che va avanti dal 2016) c’è Mario De Maglie, psicologo, psicoterapeuta, coordinatore clinico e attuale vicepresidente del Cam (Centro Uomini Maltrattanti di Firenze). “C’è una prima fase di individuazione e valutazione del soggetto e del suo passato spiega De Maglie -, e successivamente, quando ci sono i presupposti, l’inserimento in un gruppo di altri detenuti che hanno commesso reati analoghi”.

Si crea così una bolla interna ma estranea alla struttura carceraria, dove gli uomini possono affrontare i loro errori e parlare dei fantasmi del passato. “Il sistema ‘gruppo’ crea una sorta di scudo che fa sentire a loro agio i detenuti - aggiunge lo psicologo -, che si sentono più liberi di raccontare le loro storie. Non tutti, però, capiscono la gravità delle loro azioni, e on tutti purtroppo mostrano segni di pentimento”.

A Sollicciano ci sono tre diversi gruppi, per un totale di una trentina di detenuti. Quasi la metà di loro sono di origine straniera, e la loro lettura del reato commesso passa anche da un background culturale molto distante dai canoni occidentali. “I detenuti stranieri minimizzano il loro comportamenti - continua -, facendo intendere nei loro paesi di provenienza sono condannati in modo meno rigido. A questo si aggiunge il trascorso provato e familiare: in quanto molti detenuti sono cresciuti in contesti difficili e inquinati dalla violenza, hanno subito dei traumi o sono stati educati da padri che usano le botte al posto delle parole. Quindi molti detenuti hanno interiorizzato questi momenti delle prime fasi della loro vita, e pensano quasi che sia normale comportarsi su una donna o sui figli come i loro genitori si sono comportatati con loro”.

Non c’è un identikit preciso dell’uomo violento o dell’aggressore. E non c’è indulgenza, né tanto meno redenzione nei gruppi di ascolto che sono stati creati in carcere. “C’è però condivisione e un processo lungo al quale alcuni decidono di prestarsi, mentre altri restano refrattari”, chiosa De Maglie. È difficile anche trovare una ‘ricetta’ buona per tutti, in quanto la confessione del reato può avvenire nell’immediato, a metà percorso o può non esserci affatto.

“I nostri appuntamenti (una a settimana a Firenze ndr) si aprono con gli sfoghi dei carcerati sulle condizioni in cui vivono dietro le sbarre - svela ancora - poi c’è chi decide di affrontare i motivi per cui si trovano in quel luogo: riflettono, assorbono le nostre lezioni e in alcuni casi si pentono. Non capita sempre, ma chi crede veramente nel nostro percorso, poi ci segue anche fuori, quando ha permessi speciali o una liberazione anticipata, continuando a partecipare ai nostri corsi nelle sedi sul territorio. Questa per noi è una grande soddisfazione”. E fa dimenticare anche tutto il peso che un lavoro del genere può provocare: “Di storie atroci ne ho sentite tante, non ci si abitua mai. Ma ho deciso di fare questo mestiere perché ci credo veramente, sono sicuro che possa aiutare qualcuno”, conclude De Maglie.