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di Massimo Lensi*

Corriere Fiorentino, 18 agosto 2023

Il sindaco Dario Nardella ha dichiarato, sul Corriere Fiorentino di ieri, di gradire la proposta del nuovo Piano Carceri del ministro di Giustizia Carlo Nordio: la ormai famosa detenzione differenziata in caserme dismesse. Per molti, la proposta è tecnicamente impraticabile. Inoltre, ci sono aspetti che forse avrebbero titolo di essere affrontati.

Mi sono allora permesso di elencarli. Se non si comprende, infatti, che i problemi della carcerazione devono essere affrontati soprattutto “fuori”, nell’ambito della prevenzione del reato, il rischio di girare a vuoto diventa molto alto, contribuendo al più alla crescita di una particolare “professionalità” sui diritti dei detenuti, frustrante per chi la pratica.

Da anni la situazione all’interno degli istituti penitenziari, compreso il carcere di Sollicciano, è la stessa, al massimo peggiora. La cornice giuridica ha fatto qualche passo in avanti, la realtà, inè tornata ai tempi precedenti l’entrata in vigore del primo regolamento penitenziario (1975).

Le ricerche etnografiche sulla popolazione detenuta in Italia sono chiare: la stragrande maggioranza dei detenuti è dentro per reati minori, o legati al mercato della droga. I detenuti pericolosi (reati di sangue, criminalità organizzata) sono invece una piccola minoranza. Le patrie galere sono colme di marginali - gli extracomunitari, i poveri, i “disadattati”, i “tossici”: non consoni, quindi, a vivere nelle città falsamente “deluxe” del nostro modello di sviluppo; a maggior ragione oggi che il turismo internazionale sta diventando l’ultima risorsa di un Paese sempre più economicamente allo sbando.

Michel Foucault ha sempre messo in guardia dall’affrontare il carcere (la punizione) da un punto di vista che non fosse quello di esprimere preoccupazione (anche nella forma di lotta politica per Foucault fu il momento dei Gip) verso l’esigenza - oggi diremmo populista - di creare “corpi docili” e di trasformare il disagio sociale e alcuni illegalismi in “delinquenza”: insomma, la società disciplinare in tutto il suo splendore. Una società che annulla il conflitto sociale e che non si limita agli istituti di pena, ma che si allarga con la diffusione di un potere sempre più pervasivo e occulto. Un carcere senza “delinquenti”, difatti, non potrebbe esistere, ma il carcere è necessario anche a un determinato sviluppo economico.

“Deve essere fatto un lavoro sull’anima del detenuto, il più spesso possibile”, denuncia Foucault in “Sorvegliare e Punire”. “La prigione, apparato amministrativo, sarà nello stesso tempo una macchina per riformare gli spiriti”. L’aspetto più intimo della rieducazione. E le tecniche disciplinari si sprecano: non ce ne accorgiamo neanche più. La penalità non serve neanche tanto alla repressione degli illegalismi, quanto a differenziarli per renderli utili ai meccanismi di dominio.

Il dilagare dei problemi di salute mentale dentro il carcere è la diretta conseguenza del disagio esterno agli istivece, tuti di pena, fattore questo di normalizzazione della diversità. Non serve la cura, ma la solidarietà. Non servono gli psicofarmaci o i reparti psichiatrici, ma la condivisione di scelte controcorrente di liberazione terapeutica. Non occorre riaprire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, bisogna andare nella direzione opposta, concentrandosi ancora una volta su cosa significhi la follia, una delle tante messe in scena della marginalità sotto il tappeto dei modelli di sviluppo. Perché la follia non esiste: esiste però il disagio di vivere dentro, o fuori, un carcere. Esiste il reato.

Il carcere, dunque, sarà sempre sovraffollato: in teoria e in pratica, per il cosiddetto “illegalismo chiuso”. Il carcere, infatti, è anche fuori, nella società dei liberi, dove è sempre più necessario lottare per i diritti negati: impedendo, per esempio, la creazione di nuovi reati e contrastando il crescente stimolo a trasformare semplici illegalismi e finanche il disagio sociale in delinquenza. L’inserimento giuridico necessario, per un nuovo senso della pena, è invece la lezione culturale della riparazione del danno commesso dal reo, e, come più volte ha ribadito il professor Giovanni Fiandaca, prendere sul serio il principio della pena detentiva come extrema ratio.

*Progetto Firenze