sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Gaia Tortora

La Nazione, 23 luglio 2023

Non mi era mai capitato di imbattermi in un numero così alto di detenuti con problemi psichici, caratteriali, borderline. Ogni volta che entro in un penitenziario per una visita riesco a scambiare qualche parola di riflessione, di vita, di rinascita con i detenuti e le detenute. Non questa volta, non nel carcere di Sollicciano, a Firenze. Uomini rinchiusi dentro a celle fatiscenti, alcuni imbambolati, altri arrabbiati, uno lascia il cibo fuori dalla cella, è in sciopero della fame. Al femminile va un pochino meglio, le stanze sono abbellite da un tocco rosa, ma sono piccole e calde, caldissime. Se fuori fanno 42 gradi, fermatevi a pensare cosa voglia dire stare dentro senza aria, con pochi ventilatori che smuovono solo aria bollente (e questo vale anche per gli agenti che lavorano nelle stesse stanze fatiscenti).

In questo racconto troverete i numeri, ma non sono i numeri il problema, non il principale, non questa volta. Questo è il viaggio all’inferno tra un’umanità malata e rinchiusa in un penitenziario che non ha dignità. Un ex detenuto mi mostra le braccia piene di cicatrici. Quelle stesse braccia che ho visto penzolare attraverso le grate e mi dice “se non ti tagli o non cerchi di impiccarti lì non risolvi niente, nessuno ti ascolta”.

Attualmente i reclusi sono poco meno di 500, 225 al giudiziario, 107 al penale, 47 in infermeria, 8 in Atsm (Area di trattamento di salute mentale), 49 donne e nessun bambino. E questa è l’unica buona notizia. Ma i numeri sono persone, cattive o buone non esiste una seconda possibilità a Sollicciano, nonostante gli sforzi della direttrice Antonella Tuoni e degli educatori (8 e un mediatore culturale) e degli stessi agenti (340) costretti ogni giorno ad ingaggiare una lotta psicologica per evitare gesti pericolosi per i detenuti e per loro stessi. Le persone con disturbi psichici sono terribilmente in aumento in tutti i penitenziari, ma a Sollicciano tutto si scontra con una struttura fatiscente, indegna per un paese civile.

Gli scarafaggi passeggiano nei corridoi, sporcizia, infiltrazioni, umidità, cedimenti strutturali, intonaco che si sbriciola rendendo anche più facile il ‘lavoro’ di chi preso dalla rabbia devasta la cella. Cammino per i lunghi corridoi a forma di giglio (nelle intenzioni di chi l’ha costruito doveva rappresentare il simbolo di Firenze, il giglio appunto) accompagnata dalla direttrice e dal comandante. Il 70% dei reclusi sono stranieri, giovani, con cumuli di pena per reati spesso legati alla droga, tempo medio di permanenza 3/4 anni per loro.

Incrocio una donna su una sedia a rotelle con evidenti problemi di deambulazione. Chiedo: “Come fa a letto? Dovrebbe avere un alzamalati, un letto adatto con le sponde”. Domanda inutile, risposta scontata: “È il carcere, la burocrazia, le richieste”. Gli spazi comuni o di socialità non esistono se non un bellissimo Giardino degli incontri dove il dentro e il fuori possono mescolarsi anche per piccoli eventi ma non è così semplice, né frequente. Gli spazi comuni sono i passeggi. Alcune aree sono in ristrutturazione. K. è l’unico toscano che ho incontrato. Ma non è un uomo. È un animale chiuso in una caverna buia. K. ha una cinquantina di anni, da più di due passa da una cella all’altra come fossero stanze di albergo. K. ha seri problemi psichici, oggi è in versione ‘cucciolo’ (in buona) ma quando esplode distrugge, allaga la cella e persino dà fuoco. Così oggi ‘cucciolo’ chiede di essere spostato alla 15. Un uomo ridotto ad animale che nulla potrà ottenere di meglio in quelle condizioni. Quello non dovrebbe essere il suo posto.

Riprendo il cammino e penso a quanto ci siamo giustamente indignati per Zaki nelle carceri egiziane, ma credetemi qui l’Egitto lo abbiamo in casa. Però a nessuno importa. Qui, quando arriva lo psichiatra, spesso dice che il soggetto è normale e così la partita si chiude. Ci spostiamo, altra sezione. Ci avvertono che L. è nervoso, urla da stamattina, forse è meglio non entrare. La direttrice inizia a parlargli, lo conosce bene, sono anni che è a Sollicciano, entra, esce, ritorna... . L. non si fida. È arrabbiato. Anche lui ha le braccia tagliate. Chiede una cella pulita una scopa e una ramazza, ce l’ha con tutti. La direttrice non ha paura e la chiave è proprio questa. L. tira fuori un pezzo di ceramica dalla tasca e la allunga alla direttrice. È il segnale, quel gesto vuol dire ‘mi fido’. Le porte si aprono, entriamo e L continua il suo monologo disperato. Ancora celle sporche, odore di vomito, pareti lerce, volti con lo sguardo lontano. Di solito, quando in carcere si effettua una visita, i detenuti chiedono sempre chi sei e ti consegnano le loro parole cariche di speranza. Ecco a Sollicciano non esiste più neanche la speranza. Sollicciano è la nostra indifferenza, la nostra impotenza, la nostra sconfitta. La nostra vergogna.