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di Giovanni Maria Flick

La Stampa, 19 giugno 2023

La libertà d’informazione e la sicurezza non possono avere limiti, occorre che gli strumenti d’indagine siano efficaci. Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio e sul giro di vite nella pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali so di essere in (parziale) disaccordo con il direttore Massimo Giannini, come è emerso nella nostra conversazione di venerdì scorso al programma Metropolis su Rep.tv.

Perciò lo ringrazio per l’ospitalità e per l’occasione di motivare la mia opinione in modo più articolato, limitandomi per ora al solo tema delle intercettazioni. Condivido il fastidio e la contrarietà per aver voluto presentare il disegno di legge, da parte del governo, come una sorta di omaggio postumo e di doveroso (e vindice?) adempimento alla memoria di Silvio Berlusconi. Il governo Meloni, così facendo, ha semmai insidiato il cammino parlamentare della riforma, che non si presenta affatto agevole. Ed ha “inquinato” il legittimo dibattito che su temi del genere è giusto si svolga senza condizionamenti ideologici e politici.

Proprio per sottrarmi a questo fastidio, vorrei riproporre quasi testualmente alcune considerazioni da me pronunciate a voce, il 3 febbraio scorso, in un più ampio intervento che ho avuto l’onore di svolgere alla celebrazione per i 60 anni dell’Ordine dei giornalisti, sul tema “Sessant’anni di informazione nella libertà”. Non ho cambiato opinione. Che il problema intercettazioni esista ne sono convinto da almeno 25 anni (e anche dopo la riforma Orlando, prima rinviata; poi, ancor prima di entrare in vigore, modificata dal governo Conte con l’estensione ai delitti contro la pubblica amministrazione).

Da ministro della Giustizia proposi una riforma che naufragò in Parlamento e che in parte somigliava proprio a quella del mio successore Orlando. Grazie a questa siamo finalmente arrivati alla selezione delle intercettazioni rilevanti, da parte del Pm, e all’istituzione di un archivio riservato posto sotto la sua sorveglianza e responsabilità.

Il tema intercettazioni ha due aspetti critici, del tutto diversi ma connessi. Uno riguarda le condizioni per poterle effettuare (regole processuali, metodi di indagine del Pm, autorizzazione del Gip e presupposti per la loro proroga che, almeno fino alla riforma Cartabia, rappresentano la regola); l’altro i tempi e i modi per la loro divulgazione, ovvero per vietarla nelle parti non rilevanti per il processo (e questo, oltre alle regole e alla professionalità dei magistrati e, talvolta, degli avvocati, riguarda il diritto di cronaca e il lavoro dei giornalisti).

Fin da allora, anche la volontà di limitare il ricorso alle intercettazioni ai soli casi di assoluta indispensabilità, quando sia impossibile proseguire con altri mezzi un’indagine già in corso. In altre parole: prima deve esistere una notizia di reato, con una fattispecie ben delineata e gravi indizi, anche contro ignoti. Non è stato così in passato e mi auguro che oggi lo sia. Ma sarebbe interessante verificare, su un campione di procedimenti penali pervenuti a sentenza, quali fossero i reati ipotizzati nella richiesta del Pm al Gip, quali quelli contestati (dallo stesso Pm) al momento di esercitare l’azione penale, e quali quelli effettivamente riconosciuti o negati in sentenza. Certamente l’assoluta indispensabilità mal si concilia con le frequenti richieste di proroga. Se alcune settimane di captazione e di ascolto non sono sufficienti a dare riscontro all’ipotesi di accusa, il sospetto è che si stia procedendo con la cosiddetta “pesca a strascico”: prima o poi qualcosa entra nella rete, magari del tutto diversa da quella ipotizzata.

Dunque la mia posizione è semplice: sono convinto che le intercettazioni siano indispensabili, ma sono preoccupato per il loro abuso (sia nelle intercettazioni, sia nella pubblicazione). Comprendo, peraltro, le ragioni che rendono l’argomento incandescente. Sono almeno tre.

La prima. Sono in gioco interessi primari dell’ordinamento: la libertà personale, la riservatezza, la sicurezza, il diritto di informazione e di cronaca. Decidere quale debba prevalere sull’altro non è facile. Un’indicazione, però, proviene dalla Costituzione: quando si comprimono - per legge e con provvedimento dell’autorità giudiziaria - i diritti e le libertà fondamentali, si devono rispettare i criteri di proporzionalità e adeguatezza. E su questo dobbiamo porci delle domande, i magistrati per primi.

La seconda. Non sempre è questione di norme, ma di comportamenti. La legge già prevede il requisito della “assoluta indispensabilità” delle intercettazioni: la regola è che non si possano utilizzare in altri procedimenti (salvo casi particolari) o per aprirne di nuovi o per la ricerca indiscriminata di elementi di prova (pesca a strascico). Nella prassi, a volte, tali limiti vengono forzati o elusi, anche al nobile fine di soddisfare esigenze di sicurezza collettiva. Ma lo strumento penale serve per punire fatti criminali avvenuti e di cui si abbia notizia, non per reprimere (o risolvere) fenomeni sociali.

La terza. L’evoluzione tecnologica ha coinvolto tutti i mezzi di ricerca della prova, dalle analisi del Dna, alle qualità delle riprese video, alla geolocalizzazione, agli strumenti di “forensic”. Per le comunicazioni e le conversazioni private, alle intercettazioni telefoniche o ambientali “tradizionali” si è aggiunto “il captatore informatico” (trojan). Uno strumento molto invasivo la cui utilizzazione incontrollata si pone in contrasto con l’articolo 15 della Costituzione.

Il giro di vite proposto consiste nel rimettere al giudice la valutazione sulla rilevanza processuale delle singole intercettazioni già selezionate dal pubblico ministero. Sul piano processuale, dell’efficacia degli strumenti d’indagine e dell’accertamento dei reati, della tutela dei mezzi di prova e dell’indipendenza della magistratura inquirente e giudicante, non mi sembra una deriva, anche in relazione al bilanciamento dei valori costituzionali. Resta da chiedersi se la diffusa contrarietà del mondo dell’informazione sia il legittimo campanello d’allarme per il timore di un attacco all’autonomia della giurisdizione e alla libertà di stampa, di un rafforzamento della criminalità e di impunità per la “casta” (timori che, almeno in questo caso, reputo infondati) o se l’informazione sia solo (pur legittimamente) preoccupata per sé: non per la minore libertà, ma per il menù meno ghiotto servito dai giornali.

L’attività giudiziaria fornisce materiali appetibili per il mondo dell’informazione, con finalità che trascendono questo stesso mondo: agevolano il controllo sociale e sui pubblici poteri da parte dei giornalisti, compito primario dell’informazione in un paese libero; permettono di conoscere e approfondire le attività e i comportamenti della criminalità organizzata, rilevante per la sicurezza pubblica e la tenuta delle istituzioni democratiche; soddisfano curiosità e prurigini umanamente comprensibili, ma che dovrebbero essere sottoposte a un vaglio critico e a un rigoroso filtro deontologico, personale ed eventualmente degli organi della professione. In tempi di magra, la fonte giudiziaria è per il giornalismo d’inchiesta, e per i rischi anche economici di chi lo pratica, un palco in prima fila a teatro o allo stadio: un minimo di cautela, molta narrazione, nessun rischio. In questo giornalismo c’era poca inchiesta. Forse si dovrà fare più fatica, come del resto ha scritto sabato Mattia Feltri, in modo efficacissimo e ben più sintetico di me.