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di Massimo Donini

L’Unità, 28 maggio 2023

La passione garantista non è per élite né per oligarchie, è un discorso di “unità” nazionale e di umanesimo della civiltà del diritto. Nell’idea abolizionista aleggia una certa dose di indistinta utopia. Una delle espressioni sotterranee, sempre più emergenti, della dialettica destra-sinistra, riguarda il rapporto fra garantismo e abolizionismo delle pene o del carcere.

Prospettive molto diverse. Il garantismo, infatti, non ha contrassegnato le politiche della sinistra, ma semmai più quelle centriste, dell’ultimo trentennio. L’abolizionismo, invece, è affiorato solo in qualche stagione delle politiche di depenalizzazione.

Per garantismo si intende, tradizionalmente, il rispetto delle garanzie processuali e sostanziali dell’indagato o accusato nei confronti dello Stato e dei suoi organi: di qui il rispetto di tutti i principi costituzionali in materia penale (riserva di legge, divieto di retroattività, sussidiarietà e offensività, responsabilità penale personale e colpevolezza, finalità rieducativa e umanità delle pene, divieto di sproporzione ecc.), e processuale penale (presunzione di innocenza con conseguente trattamento anche mediatico degli indagati; terzietà e imparzialità del giudice; diritto di difesa; “giusto processo”: durata ragionevole, parità delle anni, diritto al contraddittorio; ne bis in idem etc.).

Principi che riguardano l’uso delle indagini, dei giudizi e delle pene, e sottendono altresì un atteggiamento culturale neutro rispetto a ideologie, posizioni politiche, sociali, economiche, religiose, nazionali, etniche etc. degli accusati. Il garantismo ha un volto giuridico- costituzionale cogente, non è né di destra, né di sinistra, e anzi vieta di usare i processi per “giustiziare” avversari politici, o per attuare e perpetuare odiose disuguaglianze. Esso si oppone al giustizialismo e all’ideologia punitivista che chiede la penalizzazione di tutto perché “se non è penale si può commettere”; esso si oppone inoltre all’uso del diritto penale come etica pubblica al posto delle giuste critiche morali o politiche dei comportamenti pubblici che devono essere possibili al di fuori dei processi; non ha passioni punitive, e non attribuisce a procure e giudici funzioni salvifiche della società, né chiede loro di accertare verità storiche collettive.

Di questo garantismo hanno bisogno tutti, ma in particolare alcune componenti della “sinistra” e della “destra”, tradizionalmente attratte da maggiori spinte populiste, punitiviste e dall’uso dei processi penali per combattere avversari politici, fenomeni generali, o tipi d’autore pericolosi, trattati come “nemici”, oppure per eliminare avversari di classe. Questo tipo di garantismo diremmo classico o tradizionale ha ancora oggi un bisogno estremo di diffusione nelle menti e nelle prassi dei governanti e dei politici, della magistratura penale, nonché dell’opinione pubblica. Non è un tema di élite o per oligarchie. La passione garantista deve diventare un romanzo popolare perché ci riguarda tutti. Siamo tutti garantisti è la premessa del nostro dire e fare: è un discorso di “unità” nazionale e di umanesimo della civiltà del diritto.

Peraltro, il garantismo è oggi triadico, deve contemplare anche i diritti delle vittime, mirando a forme di riconciliazione o di riparazione, riducendo non solo le sofferenze inutili, sproporzionate o ingiuste per gli autori, ma anche quelle delle persone offese. L’abolizionismo, invece, è una prospettiva del tutto distinta. Se il garantismo ci può unire, l’idea abolizionista può facilmente dividere in questo momento storico, essendo molto più radicale, se la si collega alla disuguaglianza della popolazione carceraria e dunque a politiche di incriminazione di tipi d’autore a rischio detenzione, che appaiono spesso inevitabilmente di classe negli esiti, anche se non nelle intenzioni.

Per abolizionismo si possono peraltro intendere opzioni molto diverse: abolire il diritto penale e le pene, oppure abolire il carcere o le pene carcerarie, oppure aggredire tanta cultura e legislazione punitivista sino ad arrivare a una sorta di minimalismo penale, come lo slogan che dagli anni 80 del secolo scorso ha animato minoranze di sostenitori di un diritto penale minimo.

Ognuno comprende che sotto queste alternative ci sono scenari diversissimi, per nulla tutti desiderabili o praticabili in blocco. Vi aleggia una certa dose di indistinta utopia. Il tema carcere, per esempio, diventa il ‘luogo’ attorno al quale si coalizzano tutti i malesseri verso una società repressiva-punitiva, sì da simboleggiare un bisogno di rivolta o di cambiamento per chi se ne faccia portatore. Si tratta di istanze “di moda” poco costruite in progetti concreti, sostenute da voci minoritarie non solo dell’opinione pubblica, ma anche degli addetti ai lavori.

Viceversa, il garantismo, nel significato prima descritto, può dirsi sicuramente recepito nella coscienza collettiva odierna, anche in quella politica, in modo trasversale, ma è una conquista che deve ancora essere consolidata e rafforzata. Appare perciò confondente, sul piano della comunicazione, mescolare tematiche così distinte: una di garanzie giuridico-costituzionali, come tali cogenti e giustiziabili, e una di prospettive politiche di più libera discussione anche partitica, ma per nulla consolidate.

Ci sono affinità tra queste distinzioni e l’idea di rifondare una cultura “di sinistra” partendo da Gramsci. Il martire del Tribunale speciale per la difesa dello Stato è l’autore delle “Lettere dal carcere”, testimonianza autobiografica di una vittima umanissima di un “delitto di Stato” contro la sua persona, ma è anche l’autore dei Quaderni del carcere, una monumentale raccolta dei taccuini coltissimi sui temi più diversi di cultura, letteratura, politica, filosofia, storia, religione, economia, etc. redatti grazie alla possibilità che un detenuto per delitti politici aveva di usufruire (con ridotte limitazioni) di una letteratura straordinaria e amplissima, mentre oggi giusto la Bibbia o poco più (almeno nella prassi) pare venga consegnato a chi è sottoposto al regime dell’ art. 41-bis.

Orbene, eleggere Gramsci a simbolo dell’uso del diritto penale come braccio violento dello Stato per sopprimere, anziché proteggere, diritti fondamentali, può essere istruttivo: anche a livello internazionale il potere punitivo diviene spesso strumento di oppressione, anziché di protezione, dei diritti. Tuttavia, se si vuole rifondare la politica “della sinistra” richiamandosi a Gramsci, anche chi si può ritenere incompetente o esterno di fronte a un tale obiettivo, è indotto ad avvertire che questo è un tema che occorre inserire nella democrazia costituzionale contemporanea: si impongono nuove analisi culturali e politiche, una mappatura del sapere e dei suoi esponenti della quale i Quaderni offrono un metodo di analisi originalissimo, ma che non riflette l’attualità, né è inserito nel recinto dei diritti costituzionali come garanzie di tutti e di una società aperta.

Grandi distanze ci separano da quegli anni, da quel secolo e da quella sinistra (anche allora divisa). Per esempio, l’idea di una egemonia culturale (di destra o di sinistra) degli intellettuali segue oggi percorsi ben differenti dal passato: i vincoli sovranazionali permanenti sulle politiche interne e le continue pronunce giurisdizionali di varie Corti pongono limiti di rilievo alle politiche nazionali; d’altro canto, gli appuntamenti elettorali permanenti e le diffusioni globali massmediatiche di saperi incontrollati rendono difficile costruire consensi di massa che siano di tipo non populista.

Quando gli intellettuali non siano ridotti a meri interpreti (Z. Bauman, “La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti”, tr. it. Bollati Boringhieri, 2007), è comunque difficile che ritornino legislatori. Invece, oggi come nel passato, rispettare le garanzie costituzionali minime non significa disporre di un diritto necessariamente liberale, e tanto meno avere realizzato l’uguaglianza sociale, che schiude a programmi politici potenzialmente assai divisivi.

Se una società è disuguale, riprodurrà facilmente questa situazione nella popolazione carceraria, anche se la dogmatica giuridica nasconde tale dato. Parimenti, è illusorio pensare che il rispetto dei principi di garanzia sopra ricordati produca di per sé un diritto penale liberale. Solo se si attuasse veramente l’ultima ratio ciò potrebbe accadere, producendosi meno pene e carcere, ma si tratta in tal caso del principio più “politico” di tutti, quello che neppure la Corte costituzionale riesce a rendere normalmente giustiziabile, perché richiede troppe scelte discrezionali.

Se dunque ci si prefigge un obiettivo reale di maggior libertà dalle pene (criminali) e anche (prospettiva non identica) di maggiore uguaglianza sociale, sono altri i mezzi da attivare: politico-economici, in primo luogo, e poi di diritto civile, del lavoro, tributario, uso di sanzioni amministrative efficaci ma non oppressive, o esercizio di diritti scriminanti (che rendono addirittura leciti i fatti). Quanto agli strumenti punitivi in senso stretto, la stessa limitata decarcerizzazione vigente (d.lgs. 150 del 2022), favorita da molte pene sostitutive e dalle riforme sanzionatone appena attuate, è oggetto di malumori politici.

Ecco perché, mentre il garantismo giuridico- costituzionale può produrre più facilmente consenso, un discorso che affronti il rapporto tra carcere e disuguaglianza, o qualche forma più forte di abolizionismo (riduzionismo, minimalismo, depenalizzazione, decarcerizzazione), dovrebbe andare ben oltre il limite dei ‘vincoli’ o dei paradigmi costituzionali penali classici, spingendosi verso interpretazioni massimaliste o più intense dell’uguaglianza sostanziale (art. 3 cpv. Cost.) o dei diritti positivi.

Il costituzionalismo penale resta dunque una condizione della democrazia, ma rischia di affidarsi ancora troppo ai controlli giurisdizionali in chiave carcerocentrica, finché non abbia fatto propri i programmi della giustizia sociale o del riduzionismo punitivo. Si tratterebbe allora di intenderlo come garantismo di tutti i diritti sociali, in un significato politico-costituzionale (così ora L. Ferrajoli, “La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale”, Laterza, 2021): e a questo punto il suo contenuto sarebbe diverso, andando ben oltre le dimensioni giuridico-costituzionali della società “punitiva”.