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di Miguel Gotor

La Repubblica, 12 dicembre 2022

Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l’istituzione di qualsivoglia commissione d’inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni.

Nelle ore in cui una presunta vicenda di corruzione si abbatte sul Parlamento europeo, un deputato di Forza Italia, Alessandro Battilocchio, chiede l’istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. A quanto pare non si tratta dell’iniziativa estemporanea di un singolo parlamentare, legato alla cultura politica socialista di derivazione craxiana e alla poco fortunata esperienza del Nuovo Psi, dal momento che il capogruppo di Forza Italia Alessandro Cattaneo avrebbe condiviso la proposta.

Le intenzioni sono bellicose e appartengono all’armamentario nostalgico e reducista tipico di quella parte della famiglia socialista che, dal 1994 in poi, ha trovato usbergo sotto l’ala protettiva di Berlusconi in alleanza con la destra post-fascista oggi al governo. Costoro continuano a considerare Mani Pulite alla stregua di un golpe mediatico-giudiziario che sarebbe stato ordito da un manipolo di magistrati al servizio, indifferentemente, di poteri forti stranieri o nazionali secondi le versioni più o meno militanti. Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l’istituzione di qualsivoglia commissione d’inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni.

Anzitutto perché sono trascorsi trent’anni dai fatti e la Commissione d’inchiesta rischierebbe di assomigliare a una commemorazione fuori dal tempo in cui riesumare uno scontro politico e ideologico con la magistratura (l’organo avrebbe gli stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria) da piegare poi a tornaconti attuali e contingenti. Non sarebbe cioè uno strumento utile a compiere, in presenza di fatti nuovi in questo caso mancanti, indagini e ricerche su materie di pubblico interesse come previsto dalla Costituzione. In secondo luogo in quanto la politica parlamentare dovrebbe fare un passo indietro lasciando spazio al giudizio degli storici e al libero dibattito dell’opinione pubblica senza provare a condizionare entrambi con il varo di istituti che, a distanza di tanti anni dai fatti, rischiano di avere una funzione di mera propaganda, se non di disinformazione e persino di intossicazione di cui non si avverte il bisogno.

Il tappo di Tangentopoli esplose quando finì la Guerra fredda e una serie di comportamenti corruttivi, fino a quel momento tollerati in ragione di una salvaguardia complessiva del sistema, non avevano più ragione di essere ignorati o sottovalutati. Il cosiddetto “sottobosco della politica”, denunciato da Daniele Luchetti nel film “Il portaborse” (1991), era stato caratterizzato da una sostanziale sicurezza d’impunità e da una buona dose di cinismo e di arroganza, ma aveva ottenuto il consenso e la complicità di ampie fasce della società civile e dei ceti produttivi, senza apprezzabili differenze tra il nord e il sud dell’Italia.

Alla luce di ciò e senza bisogno di un’apposita Commissione si può serenamente affermare che in quegli anni, in alcuni casi, si registrò un uso inquisitorio dello strumento della carcerazione preventiva e che le parole scritte dal deputato socialista Sergio Moroni in una drammatica lettera d’addio indirizzata il 2 settembre 1992 all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano per denunciare “il grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) che ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento” avessero un loro fondamento.

Così anche non è possibile esimersi dal ricordare che quanti in quel biennio agitavano cappi in Parlamento (la Lega) o lo accerchiavano al grido “arrendetevi siete circondati” (i giovani del Movimento sociale italiano) oppure mobilitavano le televisioni di proprietà in un’accesa campagna a sostegno del pool Mani Pulite (Berlusconi) già nel marzo 1994 si sarebbero ritrovati alleati e trent’anni dopo, giù per li rami delle rispettive evoluzioni politico-ideologiche e senescenze, lo sono ancora.

Non fu quella, infatti, la prima volta nella storia nazionale che il ritorno della restaurazione avrebbe assunto il volto seducente del gesto ribelle, della rottura sovversiva, della mobilitazione giustizialista e indignata di una società civile schierata contro il “Palazzo” della “cattiva politica” tra improvvisi voltafaccia, graduali riposizionamenti e inopinate abiure. Tutto ciò infatti avvenne in un panorama abitato da felpati gattopardi e saettanti camaleonti all’eterna ricerca di un’auto-assoluzione collettiva, che forse questa sì, meriterebbe una commissione d’inchiesta, non parlamentare, ma civile e culturale che avrebbe il sapore di un’autobiografia della nazione.