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di Nello Del Gatto

La Stampa, 20 marzo 2024

Dopo l’allarme Onu anche gli Usa mettono in guardia Israele: “Tutta la Striscia soffre la fame”. Netanyahu insiste: “Entreremo a Rafah”. “Devi immaginare la luna. Non è rimasto più niente. Qualche volta ho visto immagini di film di catastrofi post nucleari, mi sembra di rivivere nelle stesse ambientazioni”, dice Ahmed, che ha voluto lasciare Rafah per tornare al nord, a Jabalya, dove ha sempre vissuto la sua famiglia e affronta ogni giorno sfide per sopravvivere, “ma la sfida più grande oggi è mangiare”, spiega.

Gli aiuti a nord non arrivano se non dall’alto. Quasi tutti i camion vengono intercettati prima dagli sfollati, dai rifugiati, che tentano di accaparrarsi il più possibile. E c’è chi ne approfitta. In tutta la Striscia si sta sviluppando da qualche tempo un mercato nero. Molti ci speculano e rivendono a prezzi maggiorati le cose che arraffano o che in qualche modo riescono a procurarsi. Ci sono gruppi che si accaparrano interi camion, con la complicità di agenti di polizia, miliziani e anche corrotti impiegati di organizzazioni. I prezzi sono aumentati di oltre cinque volte. “Mangiare a Gaza costa quanto in un ristorante di lusso in un Paese ricco”, racconta ancora Ahmed che, come tanti, cerca qualsiasi lavoretto per guadagnare qualcosa e poter comprare cibo. Come rilevato anche da diversi media, per una scatola di fagioli si spendono due dollari, sei per il latte a lunga conservazione, mentre prima non arrivava a un dollaro e mezzo.

Ogni giorno, il compito di tutti, è cercare cibo. Le famiglie si dividono. Chi va al mercato, chi cerca i venditori ambulanti, chi i pochissimi negozi rimasti aperti, chi fa lunghe file presso le organizzazioni che distribuiscono aiuti. Ognuno cerca di raccogliere qualcosa. La gente mangia tutto ciò che trova, anche erbe selvatiche, neanche i pacchi aperti o distrutti vengono abbandonati. Si cerca di mettere insieme almeno un pasto, quello serale, la cena di Iftar, quella che ritualmente sancisce la fine del digiuno ogni giorno nel sacro mese di Ramadan. In tutto il mondo islamico è un momento di aggregazione, di festa, ci si scambia gli inviti tra famiglie, le tavole sono imbandite e piene di cibo. Hummus, cetrioli, carne, riso, insalate, formaggio, yogurt, e poi in Palestina le bevande di tamarindo e liquirizia. Ma Gaza è sulla luna, e la cena di Iftar è l’unico momento per tentare di sopravvivere mettendo qualcosa, qualsiasi cosa nello stomaco. Che spesso, avvelena. Proprio il fatto di prendere qualsiasi cosa da terra, di utilizzare anche alimenti scaduti o foraggi animali, ha fatto ammalare parecchie persone, vittime di intossicazioni alimentari anche gravi. Anche negli ospedali la situazione è tragica. Non c’è cibo, viene centellinato, si va avanti con qualche flebo. Mancano farmaci, bende, disinfettanti.

Qualche giorno fa per la prima volta i camion sono arrivati al nord integri. A scortarli non c’è più la polizia di Hamas, ma civili palestinesi, nominati dai clan, e armati. Da più di un Paese, Stati Uniti compresi, si contesta a Israele l’uso della fame come “arma di guerra”, cosa che lo Stato ebraico respinge fermamente, nonostante le difficoltà a far entrare aiuti, i 27 bambini morti per disidratazione o malnutrizione, gli avvisi che la catastrofe alimentare da qui a maggio colpirà il 70% della popolazione della Striscia e le accuse dell’Onu “di crimini di guerra”. I militari che gestiscono gli aiuti sostengono che non ci siano limiti alla quantità di cibo che può entrare. Sta di fatto che la gente muore di fame.

Netanyahu è sempre più deciso ad andare avanti con l’operazione a Rafah, dove ritiene si sia rintanato il gotha di Hamas, “il prima possibile”. Nonostante l’opposizione di molti Paesi, non ultima l’Italia ieri con l’opposizione della premier Meloni, e gli Stati Uniti. “Siamo in disaccordo con gli americani - ha detto Netanyahu alla Commissione Affari Esteri e Difesa - non sulla necessità di eliminare Hamas, ma sulla necessità di entrare a Rafah. Non vediamo un modo per eliminare militarmente Hamas senza distruggere i battaglioni rimasti. Siamo determinati a farlo”. Gli americani escludono qualsiasi sostegno a una grande offensiva a Rafah. “Un’operazione di terra lì sarebbe un errore - ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan - porterebbe a più morti civili innocenti, peggiorerebbe la già terribile crisi umanitaria, aumenterebbe l’anarchia a Gaza e isolerebbe ulteriormente Israele a livello internazionale”. Intanto a Rafah già si muore. Ieri almeno in 20 sono deceduti a sud e a Gaza City per un bombardamento. I venti di guerra spirano forti anche altrove. Due soldati sono rimasti feriti in un attacco di Hezbollah a Menara, vicino al confine libanese, e due agenti dello Shin Bet sono stati feriti in un attentato di un palestinese armato, poi ucciso, nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion in Cisgiordania.