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di Francesco Battistini

Corriere della Sera, 12 ottobre 2023

Niente acqua né cibo, attacchi ogni mezz’ora e 1.000 palazzi distrutti. Gli ospedali si aggrappano ai generatori di corrente. L’appello di Biden: “Israele rispetti il diritto di guerra”. A un certo punto, mentre il piccolo mondo di Gaza tutt’intorno grida e scappa, Mohammed Abu Rahma perde Ayman. Il bambino piccolo. “S’è sentita un’esplosione. Crollava tutto. Ayman dà sempre la mano alla mamma, ma s’è terrorizzato e l’ha mollata. E’ scappato dentro il nostro palazzo, sotto le bombe”. A Mohammed si ferma ancora il cuore, mentre racconta al telefono: “L’ho inseguito, spintonando la folla impazzita. L’ho trovato nell’ascensore. Strillava. Sono riuscito a prenderlo in braccio, a fuggire. Appena prima che il condominio crollasse”. A Gaza, Mohammed è un attivista di Al-Haq, s’occupa di diritti umani, aveva uno stipendio: “Abbiamo perso tutto. Dormiamo dai parenti. Ayman è sotto choc. Quel che è successo a noi, succederà a tutta Gaza. Che Dio ci aiuti”.

Se c’è un inferno, è già questo: che Dio li aiuti, lo dice anche il Papa. Telefona due volte, Francesco. Si fa passare padre Youssef, il viceparroco della Sacra Famiglia. E benedice in vivavoce chi s’è riparato là dentro: vi penso, vi benedico. Dalla Striscia non esce nulla e nessuno, a parte le storie raccontate. Quella di Hamdi Shaqura, che ha lasciato sotto le macerie moglie, fratello, figlia e cognato. D’Iman Radnan, rimasta senza padre, madre, marito e figlio. O di Ala Al-Kafarneh, che era scampato a due bombardamenti, ma al terzo tentativo ce l’han fatta ad ammazzargli otto persone: “Non so perché abbiano colpito sempre noi - piange- , siamo gente normale, non c’entriamo nulla con Hamas!...”.

I media palestinesi la chiamano già La Catastrofe, ed è una citazione della madre di tutte le disgrazie, la Nakba, la grande cacciata che nel ‘48 costrinse un intero popolo a esiliare appendendo una chiave (“un giorno ritorneremo”) sulla soglia d’ogni casa abbandonata. Stavolta però è peggio: non se ne può andare nessuno, e molte case non esistono più. La Nuova Catastrofe non fa distinzioni, potenti o tapini: Husam Zomlot, ambasciatore a Londra dell’Autorità palestinese, ha sei familiari uccisi e deve piangerli lontano, non potendo rientrare; Humza Yousaf, premier della Scozia con moglie palestinese, ha i suoceri intrappolati e deve preoccuparsi da là, non potendo rimpatriarli. Muoiono sei giornalisti, nove funzionari Onu, due barellieri della Mezzaluna rossa. “Ci sono 22 grandi famiglie gazali - spiega Xavier Abu Aid, funzionario palestinese a Ramallah - che non esistono più. E parliamo di centinaia di persone”.

L’ora della vendetta scatta alle due del pomeriggio. Quando si spenge la luce, con la speranza. E finiscono la benzina e le parole. E cadono le linee e le forze. E l’unica centrale elettrica di Gaza, che andava sì e no quattro ore al giorno, non ha più energia e stacca. Clic. Tutti al buio. Gli ospedali s’appiccicano ai generatori, finché ce n’è. Il resto s’arrangi. È l’inizio vero del Grande Assedio. Il peggiore. Due milioni di palestinesi che da sedici anni dipendevano all’80 per cento dagli aiuti, e adesso neanche da quelli. Niente acqua, niente cibo, niente telefoni, niente carburante, ora niente elettricità. E dal cielo un raid ogni mezz’ora.

I droni picchiano duro il nord di Beit Hanoun come il sud di Khan Younis, il centro di Gaza City e il valico di Rafah verso l’Egitto, il campo profughi di Bureij e le serre, le banche e i tunnel. Mille palazzi rasi al suolo, dodicimila danneggiati, 48 scuole e dieci ambulatori medici colpiti, 2.250 obbiettivi centrati, dall’Università islamica alla torre della tv. Gli ospedali buttano fuori i morti, perché non sanno dove metterli. All’operazione Tempesta di Al Aqsa, che in un sabato ha preso ostaggi e sgozzato 1.200 agnelli innocenti, Israele risponde con un diluvio di fuoco che, d’innocenti, ne seppellisce 1.100 in tre giorni.

I signori di Hamas se ne infischiano: l’ultima guerra, a partire da Ismail Haniyeh, se ne stavano al sicuro negli albergoni qatarini, ora chissà. Ma i sudditi, no: Hamas li spinge a morire da “martiri” nelle loro case. Anche quando arriva la telefonata dell’aviazione israeliana, che avverte del bombardamento. Anche se in molte di quelle case si nascondono i jihadisti, e tocca fare da scudi umani. In 400mila sono già a corto d’acqua e di cibo, 260mila sono sfollati nelle scuole ancora in piedi, nei campi, lungo le strade. Impossibile passare per Rafah, sognando un altro Egitto. Anche perché nessun Egitto al mondo se li prenderebbe, tutti questi profughi.

“Questo è un vero genocidio, andremo al Tribunale dell’Aja!”, grida nel suo ufficio di Ramallah il capo di Al-Haq, Shawan Jabareen, legato ad Abu Mazen: “Chiederemo un’inchiesta internazionale. C’è un doppio standard: il mondo fa distinzioni fra sangue e sangue, quello palestinese non vale nulla. I media parlano sempre dei morti israeliani. E per quel che fa a Gaza, Israele gode dell’impunità”. Scusi, ma lei che pensa del massacro di Hamas? “Io non difendo Hamas. A Ramallah non amiamo Hamas. Ma se devo pensare al terrorismo, io penso a Israele. Quella di Hamas è resistenza”.

Se Gaza è impanicata ed esausta, la Cisgiordania ribolle di rabbia. Il venerdì di preghiera sarà un test, c’è chi sogna l’intifada definitiva. A un quarto piano di Ramallah, un anziano in pigiama blu guarda Al Jazeera e accarezza il suo barboncino: si chiama Nabil Shaath, ha 85 anni, fu il principale consigliere di Yasser Arafat. “La mia famiglia è a Gaza e non so nulla…”, scuote la testa. Arriva un messaggino della sorella: “Ma è vero quel che sta succedendo?”, c’è scritto. “Solo l’Egitto può mediare”, dice Shaath: “Ma alla fine sarà Israele, a decidere tutto”. Che cos’avrebbe detto Arafat, di questo massacro organizzato da Hamas? La domanda cade nel vuoto. Eludere, come insegnava il maestro di tutte le kefieh: “Non so di cosa parlate, non sono informato”.