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di Giuseppe D’Onchia

ilgazzettinodigela.it, 2 aprile 2022

L’ho conosciuto anni addietro durante un reportage sulle condizioni del carcere di contrada Balate a Gela. Mi ha colpito la sua ampia disponibilità nell’accoglienza e l’alta professionalità nel rispondere alle mie domande. Senza tentennamento alcuno, rispettando i ruoli. Col tempo, ne ho apprezzato doti umane e professionali. Così come hanno fatto gli altri.

Francesco Salemi, 47 anni, laureato in giurisprudenza, regolarmente iscritto all’Albo degli avvocati e abilitato alla professione, nella vita ha scelto di… indossare la divisa della Polizia Penitenziaria.

È stato comandante di reparto presso il nuovo complesso penitenziario “Solliciano” di Firenze e dopo l’esperienza in Toscana, è tornato nella sua Sicilia (è originario di Acate), guidando gli agenti nella casa circondariale di Gela (dal 2012 al 2018), e successivamente quelli in servizio a Caltanissetta e a Caltagirone. Da quattro anni a questa parte, è comandante di reparto presso la casa circondariale di Piazza Lanza, a Catania. Nel 2021, ha avuto l’incarico di supporto nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto per poi riprendere il suo originario servizio nella città etnea.

Comandante, carceri sovraffollate ovunque. Quale potrebbe essere il rimedio per evitare tutto ciò?

“Le soluzioni sono ampiamente note a tutti i soggetti istituzionali e rientrano nell’ambito delle scelte di politica penale. Personalmente ritengo che ancora oggi ci sia una concezione della restrizione della libertà personale, quindi del carcere, come l’unica “pena vera” a fronte dei comportamenti penalmente rilevanti. Mi auguro che questa concezione possa essere superata e che nel tempo maturi la convinzione che il ricorso alle pene alternative al carcere non è solo una necessità per decongestionare gli istituti di pena, ma una scelta di modernità”.

Le carceri riescono a redimere?

“Le carceri non redimono. Il concetto di redenzione non si può utilizzare, a mio avviso, per descrivere le finalità rieducativa dell’istituzione penitenziaria. Il carcere può e deve offrire degli strumenti di “inclusione sociale”, ossia opportunità di lavoro, formazione e riflessione tali da consentire, al detenuto che ha la voglia di coglierle, una ricostruzione personale su basi diverse rispetto a quelle che lo hanno portato a delinquere. Lo sforzo della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori del carcere è quello di promuovere un processo di revisione critica del comportamento che, tuttavia, deve essere maturato dalla persona. Un processo condizionato da fattori esterni su cui l’istituzione carceraria non può incidere. Mi riferisco alle condizioni familiari, ai legami con gli ambienti criminali di provenienza, al contesto sociale di riferimento del soggetto. Il concetto di recupero della persona deviante va oltre il fine e gli strumenti dell’istituzione carceraria: impatta sulla cultura, sulla maturità e sulla ricchezza della società”.

Quante delle persone che hanno trascorso i loro giorni in galera, subito dopo la loro scarcerazione sono ritornate purtroppo a delinquere?

“Il tasso di recidiva è alto, troppo alto rispetto agli sforzi e alle risorse che tutti gli operatori del carcere mettono in campo quotidianamente. Sulle cause della recidiva vi è una letteratura sconfinata che non è il caso di richiamare. La mia personale convinzione è che laddove la società si dimostra pronta a riaccogliere quel soggetto che è stato in carcere, evitando la “ghettizzazione” ed offrendo occasioni di lavoro e di libertà, la recidiva diminuisce. L’andamento della recidiva segue la diversità sociale, culturale e, soprattutto, la ricchezza economica delle varie regioni d’Italia”.

 Qual è il rimedio per fare in modo che ciò non accada?

“La cultura, la conoscenza e il lavoro che costituiscono le basi della dignità della persona”.

Quando interagisce con i carcerati, cosa le dicono in particolare?

“Un Comandante della Polizia Penitenziaria operativo nelle carceri “deve” interloquire con i detenuti, deve cercare di intercettarne i bisogni e deve agire con fermezza per prevenire comportamenti illeciti e potenzialmente dannosi per l’ordine e la sicurezza interna e l’ordine pubblico. Il Comandante deve conoscere personalmente e attraverso il lavoro dei suoi ispettori, sovrintendenti e, soprattutto agenti, la personalità del detenuto. Durante la mia carriera ho sempre rispettato questo principio ed interloquito con la popolazione detenuta ascoltando le storie dei singoli, spesso brutali, ma altrettanto spesso dense di una umanità negata. Eccezion fatta per quei soggetti, quelli di maggiore spessore criminale che oserei definire irriducibili, i detenuti comuni chiedono chiarimenti rispetto ai diritti previsti dall’Ordinamento Penitenziario, o a tematiche di convivenza, o attinenti alla vita quotidiana penitenziaria e, soprattutto, chiedono di poter svolgere un lavoro all’interno al carcere che consenta loro di sostenersi e sostenere le famiglie. Lavoro che, purtroppo, non c’è per tutti”.

 Sbagliamo quando indichiamo la quotidianità dei carcerati, una vera e propria “libertà sospesa”?

“Non si sbaglia. Condivido. I detenuti, in quanto tali, non sono liberi e dipendono in tutto e per tutto dai loro custodi. Ma tale sospensione prima o poi, anche per i condannati a “fine pena mai” a determinate condizioni, può concludersi. Rientra nella facoltà del singolo gestire al meglio, entro le regole penitenziarie, questo periodo di libertà sospesa”.

Come passano le giornate i detenuti?

“Le giornate sono scandite da tempi, modalità e disposizioni previste nel Regolamento Interno vigente in ciascun istituto penitenziario della Repubblica e secondo prescrizioni di legge. In generale, negli istituti di pena, vengono attivati degli strumenti di formazione, scuola, lavoro, sostegno, che possono accompagnare il detenuto in questo periodo, da lei correttamente definito come di sospensione della libertà”.

Perché ha deciso di indossare la divisa della Penitenziaria?

“Da giovane studente di liceo ho urlato di rabbia alla notizia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ho percepito quella cappa di violenza e prevaricazione che portò a quelle decine di morti ammazzati nei primi anni 90 a Gela. Ho maturato in quel momento la convinzione di intraprendere gli studi di giurisprudenza e di provare a servire lo Stato. Ho esercitato per un breve periodo la professione forese e sono entrato nella Polizia Penitenziaria perché volevo far parte di una Forza di Polizia. Oggi, dopo anni di carriera, posso di dire di avere fatto la scelta giusta perché faccio parte di un Corpo chiamato a contrastare l’illegalità e la prepotenza criminale nelle carceri e nel territorio. Un Corpo che mi onora e che io onoro con tutto me stesso”.

Ha mai avuto paura del lavoro che svolge?

“Non sono mancati, nel corso della mia carriera, momenti di forte contrasto nei confronti di quei detenuti che intendevano affermare la propria posizione di supremazia con l’intimidazione e la sopraffazione a discapito dei più deboli, ma ho sempre svolto il mio servizio applicando la legge. Credo nei valori dello Stato ed ho sempre sentito forte la tutela della mia Istituzione. No. Non posso dire di avere avuto paura. Piuttosto ho il rammarico di non aver sempre compreso fino in fondo la vera personalità di alcuni soggetti che sono stato chiamato a custodire”.

Che ricordo ha dell’esperienza di Gela?

“Un ricordo meraviglioso. Di una struttura modello, con un personale di polizia penitenziaria dalla grande esperienza e professionalità. Struttura non a caso onorata della presenza del Provveditore della Sicilia, fra tutti i penitenziari della regione in occasione della festa del Corpo del 2018. Porto dentro di me i frutti di quella esperienza: la grande sinergia tra la Polizia Penitenziaria, le Istituzioni locali, le altre Forze dell’ordine, Magistratura, un Direttore capace di valorizzare la struttura ed il territorio”.

Ci sono delle differenze tra il carcere di Gela e quello di Piazza Lanza in cui attualmente presta servizio?

“La differenza è data dalla struttura, dalle dimensioni, dai numeri e dalla complessità territoriale. La Casa Circondariale di Catania Piazza Lanza riceve il 25% circa degli arrestati della Sicilia, insiste in pieno centro cittadino, è una struttura storica, del 1910, ma esempio di virtuosa ristrutturazione. Ma al pari del carcere di Gela ho trovato un reparto di Polizia Penitenziaria eccezionale, operatori dalla grandissima professionalità e conoscenza, un terzo settore estremamente attivo ed un Direttore di grandissimo spessore ed illuminazione. Posso dire, con non poco orgoglio, di avere avuto la fortuna, nel corso della mia carriera, passando dalla Toscana alla Sicilia e svolgendo disparati incarichi per l’Amministrazione Penitenziaria, di lavorare con delle eccellenze”.

Abbiamo visto e letto ultimamente di fatti di cronaca che hanno interessato il corpo della Polizia Penitenziaria. Il riferimento è alla violenza perpetrata da agenti - secondo quanto sostiene la magistratura - ai danni dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere. Qualcuno l’ha definita una vera mattanza. Qual è il suo pensiero?

“Non posso esprimermi su fatti per i quali vi è ancora un processo in corso. Osservo solamente che il motto del Corpo è: “despondere spem munus nostrum” ossia “garantire la speranza è il nostro dovere”, ed altresì che nel nostro Paese, patria del diritto, esiste un sistema di garanzie costituzionali a tutela di tutti i cittadini, anche detenuti. La Polizia Penitenziaria è un Corpo sano, bisogna avere fiducia nelle Istituzioni e nella loro capacità di resilienza”.

 Come avete gestito (e fate ancora) l’emergenza Covid tra i detenuti?

“Vi sono dei protocolli firmati tra le Direzioni degli istituti e le Asp di riferimento (la medicina penitenziaria, infatti, dipende dall’Azienda Sanitaria del territorio) che disciplinano le modalità di ricezione degli arrestati e, in generale, dei nuovi giunti nelle strutture nonché le procedure di “quarantena” dei casi positivi e dei loro contatti. I nuovi per alcuni giorni, a seconda dello stato di salute nonché vaccinale, vengono messi in stanza singola in domiciliazione fiduciaria e, solo dopo tampone negativo, molecolare o rapido, acquisito il nulla osta sanitario, vengono avviati a vita in comune nelle sezioni ordinarie. Gli eventuali casi positivi gestibili in istituto - asintomatici o paucisintomatici- vengono associati in una sezione a ciò dedicata all’interno della quale, tutto il personale, di polizia penitenziaria e operatori sanitari, presta servizio con i dispositivi di protezione individuale integrale. Ciò fino alla loro negativizzazione allorquando, acquisito il nulla osta sanitario, vengono riportati a vita in comune. Nel tempo, inoltre, sono stati acquistati ed installati dei sanificatori degli ambienti e le singole stanze detentive sono oggetto di sanificazione periodica ed alla bisogna. Di certo non sono mancati i momenti di criticità e di tensione, specie nel primo periodo dell’emergenza quando abbiamo dovuto adottare una serie di misure rigidissime per limitare l’ingresso del virus in carcere - la sospensione dei colloqui in presenza ne rappresenta quella più eclatante - struttura chiusa per eccellenza, tuttavia, il mio reparto ha saputo arginare e gestire al meglio gli eventi in sinergia con i sanitari dell’Asp di Catania. Il reparto ha dimostrato con senso di responsabilità, professionalità ed umanità attraverso una costante opera di informazione e persuasione nei confronti della popolazione detenuta che ha sempre avuto contezza delle motivazioni delle misure”.

 D’accordo con l’ergastolo ostativo?

“Si. L’articolo 4bis e l’articolo 41bis sono i capisaldi del contrasto alla criminalità organizzata sul versante penitenziario e, come già hanno detto uomini dello Stato ben più autorevoli di me, non vi è dubbio che ancora oggi siamo chiamati a gestire soggetti strutturati per i quali solo la collaborazione con la giustizia può essere considerata la prova della cesura dei legami con l’organizzazione d’appartenenza. Sono sicuro che il legislatore, come già avvenuto in passato, riuscirà a trovare il giusto equilibrio per garantire l’efficacia dell’impianto normativo oggi esistente e le indicazioni della Corte Costituzionale”.

 Sono altissimi i suicidi e i tentativi nelle carceri italiane, così come è alto il numero di atti di autolesionismo. Come fronteggiare quest’allarmante sequela?

“Potrei risponderle con la creazione del carcere che vorremmo! Quello in cui funziona tutto: manutenzione della struttura rapida ed efficace, condutture e rifornimenti d’acqua efficienti, cucine moderne, riscaldamenti, tempi di risposta rapidi alle esigenze personali dei detenuti, più lavoro, più formazione, più poliziotti in numero e qualifiche adeguate, più educatori, più psicologi, più mediatori culturali, più operatori del terzo settore! In realtà non sempre è così. Il carcere resta un luogo di sofferenza. Un luogo pieno di difficoltà che amplificano il disagio dei soggetti più fragili. Ed allora la risposta è: con gli strumenti che abbiamo. Parlo di professionalità, conoscenza e senso di umanità. Con la reale presa in carico dei soggetti fragili da parte di tutti gli operatori del carcere tra i quali un ruolo preponderante è quello della Polizia Penitenziaria che osserva 24 ore su 24 i detenuti e grazie alla quale possiamo parlare, nella maggior parte dei casi, di “tentativi” e non di tragici fatti consumati”.

Parlavamo di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti. Non mancano - purtroppo - anche aggressioni agli agenti. Più volte il sindacato ha fatto la voce grossa, chiedendo interventi immediati e risolutivi al Dap sulle disfunzioni e sugli inconvenienti che si riflettono sulla sicurezza e sulla operatività delle carceri siciliane e del personale di polizia penitenziaria che vi lavora con professionalità, abnegazione e umanità nonostante una significativa carenza di organico…

“Purtroppo il fenomeno delle aggressioni è presente e, a mio avviso, è ampliato, da un lato, dalle grandi difficoltà gestionali collegate alla pandemia, dall’altro, dalla elevata presenza di soggetti con problematiche psichiatriche, che limitano gli interventi di sicurezza e le scelte dell’organizzazione. I sindacati fanno la loro parte in quanto elementi fondamentali, per stimolo e critica, a volte anche aspra, dell’amministrazione e ci aiutano, ad intercettare un certo malessere del personale. Per questo li ringrazio. In linea generale il personale di polizia penitenziaria conosce le regole d’ingaggio ed è ben addestrato ma, purtroppo, la carenza di organico e l’esiguo numero di professionisti del trattamento, cui l’amministrazione sta cercando di far fronte con nuove assunzioni, allo stato attuale, rappresentano una grossa criticità. Di certo esistono alcuni aspetti di sistema che si possono affrontare in via amministrativa: penso ad esempio alla rimodulazione dei rapporti dei detenuti con le loro famiglie in un’ottica di premialità o, relativamente al personale di polizia penitenziaria, all’attivazione di alcune specializzazioni e ad una formazione specifica per i soggetti psichiatrici. Ciascuno di noi, ai vari livelli dell’amministrazione, è in campo su questo fronte”.

Non soltanto fatti di cronaca ma - ce lo auguriamo - anche aneddoti. Ce ne può raccontare qualcuno?

“Le racconto due aneddoti che, a mio avviso, possono far riflettere su cosa fa il carcere e su cosa fanno la società e le relazioni umane. Il primo è quello di un giovane finito in carcere per reati legati a sostanze stupefacenti ma con una storia dietro di famiglia emarginata, servizi sociali, abbandono scolastico, carcere minorile. Quando lo conobbi, poco più che ventenne, era ancora analfabeta ed in perenne conflitto con tutti gli operatori, specie i poliziotti. Abbiamo capito che l’unico trattamento per lui era quello di mandarlo a frequentare la scuola elementare interna al carcere, cosa che abbiamo fatto con non poche difficoltà. Praticamente all’epoca l’abbiamo quasi adottato! Dopo qualche mese, questo giovane incominciò a leggere e a scrivere e dopo un anno partecipò addirittura, grazie a dei volontari, ad un corso di scrittura creativo componendo una poesia per la mamma che venne pubblicata in un libretto poi dato alle stampe. In seguito, è uscito dal carcere e mi auguro che oggi sia stato capace di rompere con il passato. Il secondo riguarda un altro giovane entrato per reati contro la persona, collaterale ad una delle organizzazioni criminali che ammorbano il nostro territorio. Qualche tempo dopo il suo ingresso seppe dai suoi familiari che la sua fidanzata, di una famiglia dignitosa, era in gravidanza. Da quel momento assistemmo ad un cambiamento di questo detenuto evidente. Smise i suoi comportamenti oppositivi, accettò tutte le offerte che il carcere poteva dargli (formazione, scuola e una borsa lavoro), cambiò anche fisicamente rilassando lo sguardo ed imparando a relazionarsi correttamente. Uscì dopo un anno circa ma non gli andò bene. Fu coinvolto in un fatto di sangue e rientrò in carcere. Quando lo rividi, di nuovo con quello sguardo cattivo, intimidatorio, negazionista ed oppositivo, gli chiesi: “come sta la sua compagna e suo figlio?” Mi rispose: “non lo so. Comandante, quando sono uscito dal carcere dovevo trovare la pace ed invece non ho trovato nulla. La mia compagna e mio figlio mi hanno lasciato”. Queste storie sono comuni alla maggior parte dei detenuti. Poi ci sono gli irriducibili. Quelli dell’ergastolo ostativo”.

Cosa c’è dietro le sbarre?

“Un mondo parallelo, in cui metà della popolazione dipende in tutto e per tutto dall’altra metà. Un mondo in cui si osservano tutte le caratteristiche dell’animo umano: da quelli peggiori, mi riferisco a quei soggetti strutturati, incapaci di proiettarsi al di fuori dell’ambiente criminale da cui provengono, al soggetto psichiatrico, che ad un certo punto la società si stanca di gestire e manda in carcere. Un mondo in cui coesistono fermezza, rigidità e controllo, ma anche opportunità e responsabilizzazione”.

Voltaire diceva che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”: è proprio così?

“È così se intendiamo che il carcere rispecchia la società. In realtà la civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di garantire opportunità di lavoro e di cultura, dalla capacità di creare e distribuire ricchezza al maggior numero di persone, dalla capacità di non lasciare nessuno indietro, anche i detenuti. Purtroppo, c’è ancora tanta strada da fare”.