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di Walter Veltroni

Corriere della Sera, 25 settembre 2023

Il figlio di Vittorio, ucciso dalle Br: “L’ultima volta che mi chiamò ero negli Usa. Disse: ti sento e sto bene”. Gli assassini: “La Braghetti l’ho conosciuta fugacemente a un incontro della Caritas. Tra noi e loro c’era una terribile asimmetria”. “Ho ucciso il professor Vittorio Bachelet il 12 febbraio del 1980 al termine di una lezione alla facoltà di scienze politiche. Lo aspettavo. Scese le scale seguito e circondato dai suoi studenti. Ero vestita come uno di loro, in giaccone, pantalone stivali, con un cappello di lana in testa. Gli andai incontro ed esplosi undici colpi. Fu un attimo. Solo mentre cadeva lo guardai, vidi i capelli grigi, gli occhiali, il cappotto blu…. Non ero stata io a individuare l’obiettivo né a condurre l’inchiesta. Il professor Bachelet era un bersaglio facilissimo, non aveva la scorta e faceva sempre gli stessi percorsi”.

Il “bersaglio facilissimo” - Il “bersaglio facilissimo” di cui parla Anna Laura Braghetti nel suo Il prigioniero io l’ho conosciuto personalmente. Avevo ventuno anni ed ero consigliere comunale a Roma. Bachelet era stato eletto nella Dc, credo per volontà di Moro, e durante le lunghe sedute dell’assemblea capitolina tra lui e me si era instaurato un rapporto particolare. Parlavamo del compromesso storico, della Dc e del Pci, delle nostre famiglie, di Dio e dell’umano. Quando lo hanno ucciso, il “bersaglio facilissimo”, ho sofferto. Vicino a lui, quel giorno c’era la sua assistente, Rosy Bindi. Qualche giorno dopo ai suoi funerali ascoltai, rapito da tanta forza, suo figlio Giovanni pronunciare queste parole, inedite in quel tempo di odio e sangue: “Preghiamo per i nostri governanti, per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Per tutti i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia e quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano a combattere in prima fila la battaglia per la democrazia, con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”.

Oggi chiedo a Giovanni di ripensare a suo padre, a com’era...

“Una persona tenera, inclusiva, perdeva tempo a persuadere anche noi, adolescenti ribelli. Sapeva guidare, ha avuto ruoli importanti, ma lo faceva con il convincimento. Frequentavo il Mamiani, negli anni tra il ‘68 e il 1975. Allora certi genitori tendevano a non mandare i figli in quel tipo di scuole per sottrarli al rischio di contagio estremista. Io fino alla terza media ero stato in una scuola di preti irlandesi. Volevo restare lì ma i miei mi iscrissero, quasi a forza, al Mamiani: “Bisogna andare nella scuola di tutti, non chiudersi nella nicchia, non separarsi nelle riserve indiane in cui tutti sono uguali. Bisogna vivere il mondo di tutti, non solo il proprio. Bisogna imparare a stare con tutti. Tu vai alle assemblee ma fatti un’opinione tua, non aggregarti passivamente. Pensa con la tua testa, non scappare”. Era aperto, ma con principi importanti, non era del tipo “chi non è con me è contro di me”.

Chiedo a Giovanni se suo padre avesse paura...

“No paura no, ma certo non era incosciente. In quel tempo, del quale non bisogna avere nostalgia, chi assumeva un incarico di rilievo doveva mettere nel conto i rischi. Diceva: “Se tutti giriamo con intorno quattro persone rischiamo di dare ragione a chi dice che l’Italia è un Paese militarizzato. Io ho accettato questo incarico, se avessi paura mi dimetterei”.

Non aveva paura, ma era consapevole...

“In quel periodo ammazzavano una persona a settimana. Ricordo quando non si riusciva a comporre la giuria del processo alle Br di Torino perché i terroristi avevano detto che avrebbero ucciso chi avesse accettato quel ruolo. In televisione intervistarono uno dei pochi che aveva detto di sì e gli chiesero se avesse paura. Quell’uomo rispose: “Sì, la paura ce l’ho, ma me la tengo”. Mio padre commentò: “Che bravo, un altro avrebbe fatto una concione, un proclama etico morale, lui invece ha detto solo la verità”. Forse quelle parole valevano anche per lui, per il suo stato d’animo”.

Come viveste in famiglia i giorni di Moro?

“I giorni del sequestro sono stati molto duri. Io nel tempo ho capito meglio le ragioni di chi sollecitava iniziative umanitarie per salvarlo, ma chissà... Mio padre non parlò mai di questo tema pubblicamente, ma disse a noi che, se lo avessero rapito, non dovevamo credere a parole che gli fossero attribuite perché in quella condizione la dimensione dell’autonomia di pensiero è fortemente condizionata dalla sottrazione della libertà. Quindi credo lui sperasse davvero che Moro potesse essere liberato e fosse preoccupato per le sorti della democrazia. Le Br sparavano sulle persone, come i cattolici democratici del tempo, che cercavano di andare oltre i confini della guerra fredda prima che la guerra fredda finisse. C’era, tra loro e la sinistra e il Pci, una curiosità anche culturale, c’era la matrice comune della Resistenza, c’era lo stare dalla parte degli ultimi, per fede e/o per coscienza civile. I terroristi sparavano su chi dialogava ma anche altri, per interessi più biechi, penso alla P2, volevano chiudere quella fase di incontro che forse, magari più per Moro che per Berlinguer, avrebbe dovuto essere solo un passaggio di legittimazione dopo il quale si sarebbe conosciuta l’alternanza al governo. La follia eversiva dei terroristi si incontrò con interessi più solidi. Solo per esempio: Ruffilli lavorava a una riforma istituzionale in questo senso, quello che è succeduto a mio padre al Csm, uno della P2, si adoperò per fare avere il passaporto a Calvi…”.

Le tue parole al funerale sono state di rifiuto dell’odio, non di rimozione della violenza...

“Quella preghiera non fu solo mia, fu il prodotto di tutta la famiglia. La elaborammo insieme. Era un testo molto ponderato, anche politicamente. La preghiera, il rifiuto dell’odio e dello spirito di vendetta non voleva dire cancelliamo tutto, siamo tutti in guerra, facciamo la pace. Non abbiamo niente da vendicare, ma ognuno ha la sua responsabilità. Quando si cerca di giustificare il terrorismo con il “clima politico” di quegli anni, io ricordo sempre che l’articolo 27 della Costituzione dice che la responsabilità penale è personale. Quando tu prendi in mano una pistola per uccidere un povero cristo sei tu che lo fai, non “il clima politico”. La Braghetti l’ho conosciuta fugacemente ad un convegno della Caritas in Campidoglio. Il fratello di mio padre, Adolfo, li aveva incontrati spesso in carcere e ha sostenuto lui il dialogo con loro. Io ero ben contento di delegarlo perché c’è stato un periodo in cui si diceva, voltiamo pagina, scordiamoci il passato… Come se ci trovassimo in Sud Africa, ci fosse stata la guerra civile e ci dovessimo riconciliare. Si parlò molto delle parole della mia preghiera in chiesa, ma io non pensavo che dovessimo riconciliarci. Non eravamo uguali, io non sparavo a nessuno e mio padre nemmeno. In quel tempo qualcuno sparava e qualcuno veniva ucciso. Era una terribile asimmetria. Un’altra cosa era superare le restrizioni imposte dalle leggi Cossiga. Nessuno ricorda che il Csm, mio padre vicepresidente, diede un parere negativo perché avvertì una alterazione delle garanzie democratiche, per esempio nella triplicazione della durata delle pene afflittive. La giustizia e i diritti sono stati la sua ispirazione”.

Come hai saputo dell’attentato a tuo padre?

“Alle sei del mattino, ero nel New Jersey. Sono venuti due amici avvertiti uno da un giornalista dell’Ansa e l’altra da mia madre e mia sorella. Penso che i miei abbiano fatto così perché, visto il mio passato di depressione, hanno preferito che ci fosse qualcuno quando avessi saputo della notizia. Ricordo l’ultima telefonata con mio padre, qualche giorno prima che lo uccidessero. Ero negli Usa per lavorare e gli dissi: “Come stai papà?” “Bene, quando ti sento.”.