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di Daniele Zaccaria

Il Dubbio, 24 giugno 2023

Le dimissioni del procuratore Michel Claise e la liberazione degli indagati scoperchiano gli abusi e le contraddizioni di un’inchiesta coccolata dai media ma priva di sostanza fin dall’inizio. Doveva essere “il più grande scandalo nella storia dell’Ue”, un affaire che avrebbe scosso se non sgretolato le fragili fondamenta comunitarie. E invece, a sei mesi dai primi, spettacolari arresti, il cosiddetto Qatargate sembra implodere nelle contraddizioni di un’inchiesta tanto fumosa quanto gonfiata dal circo mediatico, scandita dall’uso smodato della carcerazione preventiva, dalle continue violazioni del diritto di difesa e della presunzione di innocenza.

Senza aver mai individuato prove concrete sull’esistenza dell’”organizzazione criminale” che avrebbe operato in modo occulto per favorire gli interessi del Qatar (e del Marocco come ipotizzano gli inquirenti) nelle istituzioni europee. Dallo scorso sette dicembre, data dell’arresto della vicepresidente del parlamento europeo Eva Kaili non è emersa alcuna novità sostanziale. L’unico elemento attorno a cui tutto ruota e che tanto ha attizzato i media sono il trolley e i sacchi pieni di euro appartenenti al lobbista Antonio Panzeri che hanno fatto scattare le retate della polizia giudiziaria belga e...una cravatta che l’ambasciatore marocchino a Varsavia avrebbe regalato all’europarlamentare del Pd Andrea Cozzolino.

Con grande profusione di mezzi e persino con il coinvolgimento dei servizi segreti belgi del Vsse, in oltre duecento giorni gli investigatori della procura di Bruxelles non sono riusciti a mettere a fuoco nient’altro. Spulciando milioni di pagine di documenti ufficiali dell’Unione europea non è venuta galla alcuna votazione, decisione, favoreggiamento concreto degli interessi dell’emirato qatariota o della monarchia marocchina.

Le dimissioni del giudice istruttore Michel Claise, autentico mattatore di questo romanzo giudiziario, hanno poi il sapore della farsa. È stato costretto a lasciare per via di un potenziale conflitto di interesse: suo figlio Nicolas ha infatti fondato una società a responsabilità limitata per la distribuzione di cannabis legale con il figlio di Maria Arena, eurodeputata belga non ufficialmente indagata ma citata a più riprese nei faldoni dell’inchiesta.

A denunciare l’intreccio è stato Maxime Toeller, avvocato di Marc Tarabella, eurodeputato belga rimasto in prigione per un paio di mesi. Toeller in questi mesi ha tuonato più volte contro i metodi da “sceriffo” di Claise chiedendone lo scorso marzo anche la ricusazione per “manifesto pregiudizio”. Non c’è riuscito, la Corte d’Appello della procura federale lo ha infatti ritenuto idoneo ed è con una specie di stratagemma formale che alla fine ha ottenuto la sua uscita di scena.

Al contrario, il giudice istruttore avrebbe dovuto essere messo all’angolo per la sua condotta nei confronti delle persone indagate, inqualificabile e ai limiti dello Stato di diritto. Mihalis Dimitrakopoulos, difensore di Kaili, ha parlato esplicitamente di “tortura”, raccontando come la sua assistita sia stata tenuta nella cella di sicurezza un commissariato per due giorni senza potersi lavare e privata di coperte per ripararsi dal freddo pur essendo pieno inverno. Rimanendo peraltro in prigione per quasi cinque mesi, separata dalla figlia di nemmeno due anni nonostante non ci fosse pericolo di fuga né di inquinamento delle prove (quali prove, poi?). Un trattamento che viola la convenzione internazionale sui diritti dei minori come ha fatto notare Dimitrakopoulos.

Tutto lo schema inquisitorio di Claise trae sostanza dalla carcerazione preventiva, strumento principe per estorcere confessioni agli indagati: tu parli e io ti restituisco la libertà. Patteggiamo dunque, ma rigorosamente alle condizioni dell’accusa: “La procura negozia ma lo fa con la pistola puntata alla tempia delle persone indagate”, si era vantato lo scorso 8 gennaio in una sconcertante intervista rilasciata al quotidiano L’Echo.

Con Panzeri, il “grande pentito” ha funzionato: di fronte alla prospettiva di rimanere dietro le sbarre per chissà quanto tempo, l’ex sindacalista ha chiamato in causa praticamente tutti gli indagati: Trabella, Cozzolino, Maria Arena, la stessa Kaili e il compagno Francesco Giorgi: “Non ho le prove ma dovete controllarli”, avrebbe detto al giudice istruttore, quanto basta per ottenere la scarcerazione lo scorso aprile.

Ma le “confessioni” di Panzeri, o forse è meglio dire le calunniose illazioni, evidentemente non sono bastate a far “allargare l’inchiesta” come invece hanno fantasticato per mesi giornali e televisioni, in un’escalation scandalistica che ha fatto a pezzi la vita pubblica e privata degli indagati già dati per colpevoli. Il dossier è ora nelle mani della giudice Aurélie Dejaiffe che ha seguito il caso fin dall’inizio. In teoria dovrebbe proseguire il filone investigativo di Claise, ma la sensazione è che si ritrovi in mano la classica patata bollente, con le indagini spiaggiate da mesi e una sgradevole ombra di discredito calata sull’intera procura della capitale belga. Senza più il vento mediatico a sospingere l’inchiesta.

Ma c’è un altro aspetto, forse ancora più inquietante degli abusi perpetrati da Claise, che il Qatargate ha fatto venire alla luce: la reazione, ai limiti dell’isteria, da parte dell’europarlamento che di fronte ai titoloni dei giornali ha letteralmente perso la testa. All’indomani dell’arresto di Kaili, la sua presidente Roberta Metsola pronuncia un discorso che, riascoltato oggi, fa davvero molta impressione: si disse “piena di rabbia e di amarezza”, spiegò quasi in lacrime che stava vivendo “i giorni più lunghi” della sua vita politica, tuonò contro i colleghi indagati promettendo che “non ci sarà impunità”, piagnucolando sulla “democrazia europea messa sotto attacco”. E prodigandosi per far revocare in pochissimi giorni l’immunità parlamentare alla sua vice Eva Kaili. Anche in quel caso viene utilizzato un artificio: la flagranza del reato, unico caso per il quale l’immunità decade automaticamente. Ma di quale flagranza si parla se non esiste nessun reato ma solamente delle ipotesi investigative?

Sono invece la vigliaccheria e il conformismo giustizialista con cui il parlamento dell’Ue ha scaricato Kaili a porre seri interrogativi sulla tenuta democratica delle istituzioni europee. Permeabili e influenzabili non tanto dal fantomatico lobbismo delle potenze straniere ma dalla pubblicistica degli organi di informazione, dal bullismo di una procura che si è creduta onnipotente, e che ha calpestato oltre ogni limite la presunzione di innocenza e i diritti degli indagati.