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di Marco Imarisio

Corriere della Sera, 1 gennaio 2024

Il femminicidio tra due studenti ha avuto un impatto senza precedenti. Le parole della sorella e del padre, che hanno mantenuto riservatezza e riserbo su sé stessi e la loro storia. Gli ultimi metri sono stati rivelatori di quanto poco sapevamo, e sappiamo. Dalla piccola chiesa di Saonara fin dentro il cimitero, fin davanti alla fossa e al cumulo di terra fresca coperto da un telo industriale. Camminando, osservando, sono emersi parenti sconosciuti, zie suore che piangevano, un nonno in disparte che chiedeva aiuto perché le stampelle si piantavano nel fango, cugine mai nominate che si guardavano anche loro intorno con aria spaesata.

Carla Gatto, la nonna accusata anch’essa di parlare troppo, di aver presentato un suo libro scritto in precedenza e di aver troppo sorriso, era accanto al padre e ai due figli, ma sembrava separata da loro, mai uno sguardo, mai una mano che si allungava verso di lei.

Quando è arrivato il momento di lasciare questa storia, i media, noi compresi, si sono chiesti se davvero, al termine di un interminabile novembre, potevamo dire infine di conoscere davvero i Cecchettin e la loro storia. Cosa sono stati e cos’erano, prima. Ma poco importa. Hanno mantenuto riservatezza e riserbo su sé stessi e la loro storia. Per proteggersi dalla marea montante, dell’interesse generale, della morbosità, degli elogi e degli insulti. Non dovevano spiegazioni a nessuno. E non hanno mai avuto interesse a presentarsi come la famiglia del Mulino Bianco. Hanno soltanto lasciato congetture e illazioni al resto dell’Italia che li osservava. Senza curarsi troppo di quel che si diceva di loro sui social, sulle divisioni causate dal loro impegno a trasformare un lutto devastante in un momento di riflessione collettiva. Almeno a questo è servita la morte di Giulia. Una ragazza di ventidue anni, uccisa da un suo coetaneo, appartenente a una generazione che ci si illudeva fosse immersa in una narrazione diversa da quella del possesso e del controllo sulla donna. La settimana di vana attesa prima del ritrovamento del suo corpo straziato da 26 (ventisei) coltellate ha funzionato come sempre da detonatore dell’interesse mediatico intorno a una vicenda in fondo non dissimile da tante altre, se non per la diversa età di assassino e vittima.

Due studenti di buona famiglia spariti nel nulla. Una delle zone più produttive e agiate del Paese. Il sospetto indicibile che non si può dire e scrivere. Gli appelli senza speranza. Le ricerche inconcludenti. Poi, in rapida sequenza, la testimonianza di un vicino di casa, il filmato di una aggressione, le tracce dell’auto. Un giallo, bisognava considerarlo tale, soltanto che la fine era purtroppo nota. Fino al mattino del 18 novembre, quando il cadavere di una giovane donna è stato ritrovato in fondo a un dirupo vicino al lago di Barcis, in provincia di Pordenone. Quale fosse il suo nome, era chiaro a tutti, ancora prima della conferma dei Carabinieri. Da quel giorno, è come se fosse cominciata un’altra vicenda, che è sembrata coinvolgere l’Italia intera. Poche volte un delitto ha avuto un impatto così forte sul piano culturale, mediatico e anche politico. Il dibattito e gli opposti furori intorno al padre Gino e alla sorella Elena, dapprima la più decisa e rabbiosa nel rivendicare la matrice sociale di quel delitto orrendo, hanno trasformato un dolore privato in un lutto pubblico. E ancora, la cattura del colpevole, reo confesso, il rimpatrio, il carcere, l’interrogatorio, i dettagli del suo gesto orrendo. In tutto questo, qualcosa è andato perduto. Come spesso accade quando una vicenda di cronaca nera diventa patrimonio di tutti, generando un dibattito pubblico, la vittima esce dalla memoria collettiva. Diventa un nome, un simbolo. Colpa di nessuno, ma è così.

Il destino postumo di Giulia non è stato diverso da quello di altre vittime della recente storia criminale d’Italia. Chi era davvero, quali erano i suoi desideri, cosa pensava. A mettere insieme tutti i frammenti e le testimonianze di questo lungo mese, non ne esce mai un ritratto completo. E forse, non potrebbe essere altrimenti. Ma forse è anche giusto farlo, ancora una volta, l’ultima. Era nata a Saonara, dove oggi riposa poco distante dalla sua mamma. L’ultimo comune di Padova prima della provincia di Venezia. Una bambina quieta, così l’ha ricordata il padre Gino. Aveva fatto il liceo classico al Tito Livio di Padova, la scuola più prestigiosa del capoluogo, che ebbe tra i suoi molti allievi illustri anche il futuro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Era piccola di statura, minuta, spesso taciturna. Si era diplomata con il massimo dei voti. Aveva scelto di studiare ingegneria, ma non si vedeva a progettare ponti e palazzi. Nei suoi ultimi anni, aveva deciso che dopo la laurea, che stava per conseguire con quasi un anno di anticipo, si sarebbe iscritta a un corso di disegno. La sua vera passione. A una amica aveva confidato di avere in testa un libro di illustrazioni per bambini. Amava passeggiare, ogni tanto veniva presa in giro perché un po’ impacciata a sciare. Diversamente sportiva, diceva di sé. Aveva il dono dell’autoironia. Si prendeva poco sul serio, anche se avrebbe potuto farlo, dotata com’era di una intelligenza che i suoi insegnanti, fin dalle elementari giudicavano fuori dalla norma. Giulia aveva convissuto con il dolore più grande che una figlia possa immaginare.

La madre Monica, alla quale somigliava in modo impressionante, si era ammalata nel 2016. Diagnosi fin da subito infausta, come si usa dire. Era mancata il 20 ottobre del 2022. Poco prima, Giulia aveva lasciato una prima volta l’uomo che poi la ucciderà. Sentiva di non avere testa per una relazione impegnativa, come invece le veniva richiesto da lui. Tutto quel che è venuto dopo, la ripresa del fidanzamento, un nuovo addio, il senso di colpa per lui che stava male, aveva a che fare con una elaborazione del lutto ancora da compiere, almeno così hanno sostenuto gli esperti che si sono cimentati nell’interpretazione di questa dinamica di coppia. Ma chissà poi se è vero.

Il ritratto più intimo, che più di ogni altro ha restituito l’entità della perdita, è stato letto nella piccola chiesa di Saonara dalla sorella Elena, così diversa e così simile da lei. E in qualche modo è sembrato giusto che a farlo fosse la persona che per prima ha dato una dimensione politica e collettiva alla sua morte, attirandosi addosso critiche e attacchi feroci. Giulia alla quale era semplice fare regali, perché la divertiva qualunque cosa vagamente buffa e carina. Giulia che non buttava via mai niente, nemmeno le cose rovinate. Che collezionava scatole di latta per riempirle di altre scatole. Che non amava decidere, nemmeno il gusto del gelato. Giulia che amava la letteratura inglese e Jane Austen, e con lei sognava di andare a vedere la brughiera. Giulia che aveva una paura irrazionale delle cimici, Giulia che si dimenticava sempre le chiavi, e una volta tentando di entrare dal cancello si era strappata il cappotto e la felpa. Era sua la sua sorellina, ha detto Elena tra le lacrime, ma anche la sua sorella maggiore.

Dopo la morte della madre era rimasta a casa, finendo per occuparsi del padre e del fratello minore. Aveva dovuto diventare adulta in fretta, ma continuavano a collezionare pelouche ai quali dava nomi assurdi. Giulia che era una promessa di vita. In questi primi giorni d’inverno, dalla casa dei Cecchettin si vede un panorama grigio e lattiginoso, con l’orizzonte chiuso da un cantiere in costruzione. Sul cancello esterno, qualcuno lascia ancora dei biglietti, che suo padre ritira alla sera. Lui ed Elena hanno promesso di andare avanti in quello che è giusto. Giulia non lo saprà mai. Ma il suo nome continua a irradiare luce.