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di Simonetta Fiori

La Repubblica, 20 gennaio 2023

Giuliano Amato firma l’introduzione alla nuova edizione dello storico saggio di Louis Henkin e da ex presidente della Corte Costituzionale spiega dove c’è ancora da lavorare. Ci sono diversi motivi per parlare di diritti umani con Giuliano Amato, uscito recentemente dal Palazzo della Consulta e ora di nuovo nella sede cinquecentesca della Treccani (che lo ospita come presidente onorario), non distante da piazza del Quirinale.

A settantacinque anni dalla Dichiarazione universale (1948), l’Istituto dell’Enciclopedia ripubblica il saggio di Louis Henkin Diritti dell’uomo del quale Amato firma l’introduzione. E a Cascais pochi giorni fa c’è stato il debutto, sotto la sua presidenza, della commissione internazionale con egida Onu sulla Global Rule of Law, con la partecipazione di giudici e presidenti di Corti Supreme, di ex presidenti della Repubblica, di accademici, diplomatici e politici di svariati continenti.

“Doveva venire anche Gilmar Mendes, ma è dovuto rimanere in Brasile per gestire alcune migliaia di facinorosi”, dice Amato nel suo nuovo studio a Palazzo Mattei. Quello dei diritti è un filo rosso che attraversa la sua biografia politica e intellettuale, ma ora confessa di essere particolarmente angosciato dalle fratture sempre più profonde che dividono il mondo. “Dall’Afghanistan all’Iran, dalla rivolta dei trumpiani a Capitol Hill ai ribelli di Bolsonaro, oggi siamo molto distanti da quei valori comuni che permisero ai fondatori delle Nazioni Unite di dichiarare universali i diritti”. La definisce “una grande rivoluzione culturale”. “Per la prima volta venivano riconosciuti i diritti di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla cittadinanza e dall’appartenenza a una comunità”.

Una rivoluzione culturale sempre più contraddetta da persecuzioni e da pulsioni antidemocratiche. Come scrive Henkin, quella dei diritti umani è “un’ideologia difficile da trapiantare”...

“Henkin stesso rappresentava la sacrosanta vendetta dell’intelligenza contro la barbarie. Era arrivato a 6 anni negli Stati Uniti dalla Bielorussia dove il padre era un autorevole rabbino: la famiglia era scappata dalla persecuzione dell’Armata Rossa. Divenne un’autorità all’incrocio tra diritto costituzionale e diritto internazionale e io lo ebbi professore alla Columbia University. Da lui ho imparato uno dei punti essenziali, ossia la contraddizione tra quegli ideali universalistici e la capacità pratica molto parziale di realizzarli”.

L’Occidente, che pure è stato artefice dei diritti, non sfugge a quella contraddizione...

“Oggi assistiamo a una sorta di egolatria che colpisce le nazioni o singole parti della nazione, persuase di avere l’esclusiva nel rappresentare la volontà del popolo: chi non sta con loro diventa automaticamente nemico del popolo. Questo è già accaduto in Europa, in Ungheria, dove chi ha vinto le elezioni ha liquidato gli avversari in quanto nemici. Ma è accaduto in forma rovesciata anche a Washington e a Brasilia dove chi ha perso le elezioni non accetta l’esito del voto ma accusa l’avversario, ossia il nemico del popolo, di aver vinto con l’inganno”.

Il pericolo dell’egolatria nazionale rischia di contagiare anche l’Italia?

“Il governo di destra sa bene che non può deragliare dai binari fissati dall’Europa. Il legame con l’Unione risponde infatti a una necessità vitale che va molto oltre scelte contingenti. Ma in uno scenario sempre più colpito da guerre e pandemie, prevale ovunque la nozione di “autonomia strategica”, ovvero produrre da soli ciò che serve di più. Gli Stati Uniti stanziano fondi a sostegno delle proprie imprese, l’Europa vuole fare lo stesso, e dobbiamo augurarci che l’Unione non si limiti a riconoscere gli stanziamenti dei singoli Stati, abbandonando a sé stessi i paesi più indebitati. Ma dove ci può portare la chiusura di Europa e America nei rispettivi protezionismi? Davvero l’Occidente è un’entità che esiste soltanto attraverso le armi? Non è quello che dobbiamo augurare a chi voglia essere portatore di diritti universali”.

L’ultimo rapporto di Amnesty International denuncia la risposta pericolosamente debole delle Nazioni Unite in un contesto sempre più segnato dalle guerre...

“Questa è forse l’espressione più palese delle contraddizioni da cui siamo partiti. D’altra parte le Nazioni Unite nascono su un doppio fondale: da un lato l’aspirazione all’universalità, dall’altro l’accettazione della sovranità degli Stati. E la sovranità intesa come esclusività del potere - il principio del ‘superiorem non recognoscens’ - contrasta con l’universalità”.

Lasciando la presidenza della Corte Costituzionale lei ha denunciato la tentazione crescente in Europa di innalzare le barriere nazionali contro il diritto comune europeo. Una tentazione a cui non è estranea la destra oggi al governo, la quale ha annunciato attraverso il ministro Lollobrigida la volontà di cambiare l’articolo 11 della Costituzione, ossia quello che vincola la sovranità nazionale al diritto sovranazionale...

“Credo che basti un solo dato per mettere in difficoltà psicologica chi ha formulato questa proposta: la Costituzione che per prima ha riaffermato il primato del diritto nazionale su quello internazionale è quella russa del 2020. Fare una riforma che ci assimili a Putin potrebbe apparire molto singolare: quello che è forse un errore diventerebbe un errore di collocazione dell’Italia nello scacchiere internazionale. Credo infatti che al fondo ci sia un equivoco che andrebbe chiarito”.

Quale?

“Per noi giuristi il rapporto tra il diritto europeo e quello nazionale non è fondato su una gerarchia, ma sulle competenze: ci sono settori in cui gli Stati hanno deciso sia meglio legiferi l’Unione Europea, e settori in cui è rimata la competenza degli Stati. Il problema quindi non è limitare la supremazia del diritto europeo, là dove noi lo abbiamo voluto, ma essere sufficientemente capaci di concorrere alla sua costruzione in modo da difendere i nostri interessi. E qui è giusto dire che bisogna farsi valere di più e meglio, ma non negando quel diritto, piuttosto contribuendo alla definizione dei suoi contenuti”.

È molto accesa la discussione sul recente decreto del governo sui migranti. Le organizzazioni non governative, costrette a fare un salvataggio alla volta, contestano la violazione di un diritto umanitario internazionale...

“Le regole hanno un’astrattezza che è destinata a misurarsi coi fatti. È evidente che se dopo un salvataggio m’imbatto in un’altra barca che sta affondando non c’è regola italiana che mi trattenga dal salvare quei naufraghi: rischierei di commettere una violazione ben più grave. E nessun tribunale mi potrebbe condannare per aver messo in salvo vite umane in pericolo. Devo anche aggiungere che queste regole, pur opinabili, sono i tentativi che fa un paese esposto come il nostro per limitare una responsabilità che sarebbe giusto condividere con la comunità europea, finora piuttosto micragnosa”.

L’Italia non è messa benissimo sul piano dei diritti. Nell’ultimo anno sono cresciuti i ricorsi alla Corte di Strasburgo. E sono aumentate le condanne, specie per le condizioni nelle carceri...

“Certo non aiuta una concezione punitiva della detenzione che ho visto accendersi in una parte della destra davanti alle sentenze della Corte Costituzionale in difesa dei diritti dei detenuti ritenuti più pericolosi. Diciamo che noi abbiamo alcune questioni aperte. E lo dico avendo firmato io stesso parte della legislazione antimafia. Siamo orgogliosi di aver affrontato terrorismo e mafia senza sottoporci a regimi speciali, ma non è meno vero che nella nostra legislazione ordinaria abbiamo messo norme speciali che sono da regime di sospensione dei diritti. Alcune di quelle norme sono ancora lì. E in più abbiamo anche esteso queste regole speciali a reati molto diversi. Quello che mi colpisce è che il ministro della Giustizia del governo di destra sia accentuatamente garantista: posso pensare che queste questioni non gli sfuggano”.

Tornando alla contraddizione tra la teoria e la pratica, questa dei diritti è una storia condannata all’incompiutezza?

“No, non penso. La grande forza di quel messaggio eversivo sui diritti universali è destinata ad agire soprattutto nella coscienza di chi non ha diritti e ne pretende il riconoscimento. Ma anche nella coscienza di chi quei diritti li nega e a un certo punto capisce che è una follia. Se penso all’incubo delle donne iraniane, confido nel ravvedimento non tanto delle autorità spirituali ma dei poliziotti costretti a sparare negli occhi delle ragazze. Ma forse - lo riconosco - qui parla il vecchio socialista che ha creduto nel protagonismo degli ultimi e dei diseredati. La storia del Novecento è cominciata così. E dobbiamo sperare anche oggi in un nuovo inizio”.