sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Pamela Ferlin

Corriere del Veneto, 1 aprile 2022

Tempi processuali infiniti, mancanza della certezza della pena, recidiva che supera il 70%, a tutto questo aggiungiamo l’inadeguatezza del sistema carcerario. La questione “delitto e castigo” in Italia è talmente marchiana da farci interrogare sull’opportunità di percorsi alternativi e su approcci diversi rispetto all’afflizione detentiva del sistema penitenziario. È la questione carceraria: da afflizione e punizione a misure alternative e giustizia riparativa. Ne parliamo con il professor Giuseppe Mosconi, già ordinario di Sociologia del diritto presso l’università di Padova, presidente dell’associazione Antigone e promotore del Polo Universitario presso il Carcere di Padova.

Professor Mosconi, quale sarebbe la soluzione: “buttare via la chiave”?

“Non cederò alla provocazione ma sappia che sono tentato. La devianza e il carcere, sono temi connessi alla relazione tra opinione pubblica e delinquenza. Rinchiudere in un’istituzione totale come il carcere il problema della criminalità, rappresenta una soluzione chirurgica ma illusoria. La reiterazione dei reati dopo il carcere è praticamente una certezza, quindi se con la chiave non funziona vorrei dire sì, buttiamo via la chiave”.

Quando si applicano misure di rieducazione alternative al carcere la recidiva scende al 19%, questo cosa significa?

“Farei un passo indietro e parlerei di nuova prevenzione, di una combinazione di azioni che mirano a disincentivare le condotte criminali”.

In termini pratici?

“Non solo la minaccia della detenzione: se delinqui ti metto in galera. Piuttosto il ricorso a misure di pubblica sicurezza, che chiamiamo “incapacitative”, che limitano i soggetti potenzialmente pericolosi, per intenderci i vetri anti sfondamento o i sistemi di video sorveglianza. E ancora misure inclusive di welfare e partecipazione per evitare che un soggetto diventi “socialmente pericoloso” alternative e prioritarie secondo me. Per semplificare senza banalizzare: se un ragazzo crea problemi, quel ragazzo ha problemi”.

Se questi accorgimenti risultassero insufficienti e la punizione fosse necessaria?

“Un approccio preventivo dovrebbe contemplare misure alternative all’uso del carcere in caso di violazione della legge. Sappiamo, da studi internazionali che, quando un soggetto colpevole viene rieducato attraverso misure diverse dal carcere, la possibilità che torni a delinquere precipita a percentuali sorprendenti. Il carcere amplifica lo stigma e terminata la pena, una persona torna in libertà ma si ritrova in un deserto peggiore rispetto a quando lo ha lasciato. Spesso le famiglie si sono sfasciate, la possibilità di trovare un lavoro è azzerata ed è quasi inevitabile tornare a delinquere”.

Eppure ci sono percorsi rieducativi anche in carcere, dove l’apporto dei volontari è fondamentale, tutto da buttare?

“No, anzi! Due terzi della popolazione carceraria non ha nemmeno il diploma di scuola media, la scolarizzazione è bassissima, in questo senso il percorso scolastico in carcere è una risorsa preziosa. Lavorare durante la detenzione è sarebbe l’occasione per imparare un mestiere, e ha effetti positivi tanto per la famiglia quanto per l’autostima del detenuto stesso che si sente apprezzato e reinserito nel contesto sociale. Ma non posso non rilevare che per esempio in Veneto il carcere di Padova rappresenta un’eccellenza e, pur essendo di gran lunga tra i migliori, offre appena al 16% dei detenuti la possibilità di lavorare presso cooperative esterne”.

Quindi lo studio e il lavoro sono validi strumenti di rieducazione?

“Sì, ma sono insufficienti. Una volta fuori si è impreparati ad affrontare la società. La rieducazione in carcere non è praticabile. Non parliamo solo di apprendere un mestiere o andare a scuola, ma di assumere volontariamente un percorso riabilitativo e valoriale idoneo alla convivenza sociale. Altrimenti le stesse condizioni che lo hanno indotto a delinquere si ripresenteranno aggravate dallo stigma sociale di essere un ex-detenuto”.

Il problema sono le risorse o il metodo?

“Più che scarse, le risorse sono mal allocate. Un detenuto costa alla collettività circa €150 al giorno di cui più di due terzi sono destinati a pagare il personale, non le risorse rieducative. C’è una drammatica carenza di educatori che hanno un carico di lavoro impossibile, parliamo di 1 operatore ogni 100 detenuti. Si crea consenso sociale nel custodire e rappresentare agli occhi dell’opinione pubblica la scena teatralizzata della persecuzione penale contro la delinquenza. La società trae sollievo dall’idea che la reclusione sia una soluzione. Ma non lo è”.

Come dovrebbe la rieducazione?

“Il carcere è un contesto artificiale, dentro le sue mura una rieducazione al contesto civile è impossibile. Rieducazione significa assumere un habitus mentale, psicologico, emotivo e valoriale che regga alla prova delle difficili condizioni del dopo-scarcerazione. Per acquisire una visione diversa un detenuto deve sentirsi una persona meritevole di dignità, di cui vengono valorizzate le potenzialità, capace di istaurare relazioni adeguate. Il carcere, così com’è soddisfa solo il “populismo penale”, il viscerale bisogno di vendetta e l’annullamento del diverso”.

Cosa ci dice della giustizia riparativa su cui la proposta Cartabia si spende?

“Sarebbe un cambio di paradigma: non più solo punire ma “riparare” la relazione tra l’autore e la vittima, per gestire le conseguenze del reato e riequilibrare la relazione. Uno di fronte all’altra: la vittima esprime la sua sofferenza raccontando la sua esperienza in tutta la sua gravità al colpevole che, a sua volta, comprende la portata del dolore causato, ma può anche spiegarsi. Non basta che l’autore voglia redimersi, il consenso della vittima è fondamentale e la relazione è dialettica”.

Chi crea le condizioni perché questo avvenga?

“I mediatori che dovrebbero avere conoscenze di diritto, psicologia e sociologia. Si tratta di passare dalla “afflizione per riparare il danno” a una “riqualificazione complessiva dei rapporti sociali”. Il penitenziario respira anche il tessuto sociale in cui si trova. Non è irrilevante che il Due Palazzi si trovi a Padova dove esiste l’università e una vitalità culturale che arriva alle porte del carcere. Il tessuto imprenditoriale è ricettivo attraverso iniziative che offrono lavoro ai carcerati. Tanti volontari forniscono attività culturali, sportive e hobbistiche che occupano detenuti. Gli operatori interni sono sensibili, competenti e preparati. Ma si sa che le istanze formative e educative confliggono con quelle organizzative di una istituzione complessa come il carcere”.

Quindi “buttiamo via la chiave” ma prima di averla usata?

“Sarebbe anche un risparmio economico e sociale evitare il carcere e reintegrare i trasgressori nel sistema, non è buonismo ingenuo ma necessarie politiche sociali”.