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di Valter Vecellio

L’Opinione, 7 ottobre 2022

L’appello, il monito, l’allarme, lo si chiami come si vuole, è particolarmente autorevole, oltre che accorato. Il presidente emerito della Corte costituzionale, ma anche ministro della Giustizia e giurista tra i più apprezzati, Giovanni Maria Flick, sceglie la platea congressuale dell’Unione delle Camere penali per ricordare l’urgenza di quella che continua a essere la madre di tutti i problemi di questo Paese: la giustizia e il suo epifenomeno, il carcere.

Flick premette che le pur caute, timide riforme dell’ormai ex ministro, Marta Cartabia, hanno un elemento positivo: “Siamo usciti dall’equivoco secondo cui le riforme della giustizia vanno scritte sotto il diritto di veto e di beneplacito della magistratura. Perché è così che è andata negli anni precedenti”. Tra le tante priorità, Flick individua innanzitutto quella del carcere: “Grave, incivile situazione: indegna perché appunto offende innanzitutto la dignità”.

Non si può più attendere: “Va riconsiderato il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena. Va tenuto presente che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, perché nega l’affettività, priva dello spazio e annulla il tempo. Il tempo cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, della speranza. Sul carcere le riforme sono urgenti”. Il timore di Flick, non infondato, che ancora una volta le questioni giustizia/carcere non siano una priorità della classe politica, che rinnoverà gli errori del passato lavandosene le mani.

Un caso emblematico, prima di concludere questa nota. Ercole Incalza è un manager di lunga, sperimentata esperienza, tra l’altro alto ex dirigente del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. È incappato in disavventure giudiziarie e per ben diciassette volte è assolto. Ermes Antonucci de “Il Foglio” raccoglie la sua desolata e amara riflessione: “Questa giustizia scoraggia chi gestisce la Pubblica amministrazione a rimanerci”.

Ne ha ben motivo: si conclude con una quantità di assoluzioni (venti imputati su ventisette) il processo sulle presunte tangenti relative al cantiere del Terzo Valico. Per quanto riguarda Incalza, si stabilisce che “il fatto non sussiste”. Significa che non c’è, non esiste; non è mai esistito. Questo per 17 volte. Incalza la prende con filosofia, ma traspare amarezza: “È facile che prendano corpo delle denunce, molte volte anche degli attacchi da parte di schieramenti politici, e che quindi si diventi involontariamente martiri. Fortunatamente poi arriva la giustizia, anche se il tempo costituisce un fattore importante. Ci sono casi in cui un processo dura non uno o due anni, ma anche dieci anni. E poi, a dispetto di quanto si dica, cioè che si è innocenti fino a sentenza definitiva, la verità è che in Italia è sufficiente un rinvio a giudizio per essere immediatamente allontanati dal sistema”.