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di Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 6 marzo 2023

Il processo penale è per sua natura inadeguato ad affrontare i casi con “vittime diffuse”. Forse più efficace sperimentare percorsi innovativi di riconciliazione sociale. Non si è detto mille volte che il Covid ha fatto più morti di una guerra? E allora per curare le ferite personali e sociali della pandemia Covid ci vuole davvero una “giustizia di guerra”.

Non nell’accezione di sommaria caccia alle responsabilità per (e pur di) placare le disperate e incommensurabili aspettative di giustizia dei familiari delle vittime. Ma nemmeno nel senso dell’opposta semplificazione che, volendo tutto anestetizzare con la ruffiana evocazione di un generico giudizio solo sul piano politico, e magari devolvendolo al caravanserraglio della propaganda incrociata di una Commissione parlamentare d’inchiesta, sbrigativamente liquida le conclusioni dei pm di Bergamo su 19 figure istituzionali con l’assunto che l’imprevedibilità della pandemia tolga in partenza legittimità e senso a qualsiasi intervento giudiziario.

Al processo penale orientato alla punitività classica forse sì. Ma non appunto alla giustizia post bellica, cioè alla “giustizia di transizione” nel senso definito dalle Nazioni Unite in quei documenti che solitamente si pensano riferiti a contesti geografici in uscita da guerre civili e conflitti armati, e che invece solo qualche progetto-pilota universitario (come sei anni fa quello dei professori Forti-Mazzucato-Giavazzi-Visconti) ha sinora provato a trasfondere ad esempio nel campo dei reati ambientali o finanziari delle grandi imprese che stravolgano vita e territori di intere comunità.

Nel perseguire reati a “vittime diffuse” (sia per numero sia per scala geografica) il processo penale è infatti strumento paradossalmente inservibile proprio perché vincolato a standard legali stringenti, rigide griglie di ammissibilità delle prove, esigibile prevedibilità di precisi confini alle condotte penalmente rilevanti, necessità di un nesso causa-effetto tra la singola condotta del singolo indagato e il prodursi della singola infezione foriera della morte della singola persona, aggancio a solide leggi di copertura scientifica, precise posizioni di garanzia in capo ai soggetti imputabili, scioglimento dell’intreccio di fonti legislative di rango variabile. E con questi parametri si può già scrivere nel marmo, adesso per quando sarà il momento delle sentenze, che ben difficilmente qualcuno potrà mai essere condannato sino in Cassazione: esattamente come negli ultimi anni sta quasi sempre avvenendo nelle sentenze sugli omicidi colposi dei lavoratori esposti nei decenni scorsi all’amianto.

E tuttavia, per scongiurare la frustrazione delle aspettative che i familiari delle vittime vengono incoraggiati a riporre nel processo penale come balsamo alle proprie ferite, può esistere forse un’altra forma di giustizia. Ed è appunto la giustizia riparativa, di transizione, post bellica, nella quale chi ha preso/omesso decisioni e chi ne ha subìto le conseguenze si incontrano e partecipano in modo volontario - con l’aiuto di mediatori specializzati, e nella corale cura della comunità - a un confronto autentico sugli effetti del dolore inflitto o subìto, allo scopo di riparare, suturare, aggiustare, rammendare, ricomporre le fratture personali e sociali: riconoscendo le ritenute ragioni degli uni e i sentimenti provati dagli altri, le paure vissute dai decisori (nella percezione degli interessi da bilanciare) e la rabbia dei cittadini giustificata dalla constatazione delle bugie e delle contraddizioni disvelate dall’inchiesta. Un metodo diverso.

Ma anche un percorso giudiziario percorribile tra non molto nel nostro sistema, appena entro l’estate il ministero perfezionerà i decreti attuativi del nuovissimo articolo 129 bis del codice di procedura penale introdotto dal decreto legislativo 150 del 10 ottobre 2022 (la cosiddetta riforma Cartabia), in base al quale “in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria” potrà, “anche d’ufficio, disporre l’invio dell’imputato e della vittima del reato a un Centro di giustizia riparativa per l’avvio di un programma” appunto di riconciliazione.

Prima di liquidarla come un’idea stramba, si consideri quanto gli obiettivi perseguiti nei documenti Onu su questa “giustizia di transizione” incontrino esattamente i bisogni anelati da chi seppe morti i propri cari senza più nemmeno averli potuti assistere negli ospedali, e magari li rivide solo alla tv nelle bare dentro i camion dell’esercito che li portavano a cremare: diritto a conoscere, dovere di preservare la memoria, ascolto delle vittime non come sterile audizione di maniera ma come autentico riconoscimento del loro dolore, garanzie che non si ripeta l’accaduto, radiografia delle cecità dei sistemi organizzativi, correzione delle falle nei processi decisionali insensibili agli imprevisti segnali di rischio, sino a gesti che prescindano da singole colpevolezze penali ma che in chiave solidaristica si facciano carico di risarcire le conseguenze di scelte rivelatesi errate a posteriori. Alla ricerca, insomma, di una sorta di “guarigione sociale” quale base per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.

Sarebbe - nel solco ad esempio del tribunale sudafricano “per la verità e la riconciliazione” dopo la fine del regime dell’apartheid negli anni 90 - un percorso comunque faticoso: anche e soprattutto perché (tanto per un ex premier, un ex ministro, un presidente di Regione o un grande scienziato, quanto per una figlia che in Valseriana abbia visto il padre ingoiato per sempre in una Rsa) sarebbe un metodo poco familiare agli abituali riflessi mentali di indagati che per difendersi finiscono però quasi per pretendere pure la medaglia d’oro al valore delle proprie controverse scelte, e di vittime che per dare un senso al proprio dolore finiscono per pretendere ovunque responsabilità penali.

Ma l’alternativa, sebbene più facile, e cioè il già iniziato tiro alla fune attorno al processo a punitività classica, ha già la sua (non lieta) fine segnata: l’assalto delle vittime (ormai non raro nei tribunali) al giudice che, in sentenza, non avrà dato loro ciò che in partenza sarà stata crudele illusione far credere potesse arrivare da un processo penale.