sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Luigi Manconi

La Repubblica, 21 aprile 2024

Il termine non piace a molti. Ma significa né più né meno la piena applicazione dei requisiti dello Stato di diritto e in particolare il complesso di tutele assicurate al cittadino nei confronti di tutte le istituzioni dello Stato durante le diverse fasi del processo penale. Vittorio Feltri, a proposito delle inchieste nei confronti di esponenti del Pd di Bari e di Torino, ha scritto: “Per noi vale la presunzione di innocenza. Ma noi siamo garantisti. A sinistra molto meno”. In effetti Feltri ha assunto, specie negli ultimi tempi, posizioni nitidamente garantiste; ma estendere tale giudizio all’aera politico-culturale nella quale si ritrova è un’impresa davvero improba.

Gli esempi sono molti: e basti ricordare il trattamento riservato dai giornali di destra al parlamentare Aboubakar Soumahoro, mai nemmeno indagato dalla magistratura, in ragione dei suoi rapporti di parentela con persone rinviate a giudizio. Si dirà: e allora Daniela Santanché? A parte la significativa differenza tra un deputato e una ministra e il fatto che, su quest’ultima, le indagini ci sono e sono più di una, la questione è comunque rilevante e consente di operare le indispensabili distinzioni. Va da sé che sul piano giuridico e giudiziario Santanché debba essere considerata innocente fino a sentenza definitiva, ma questo vale ovviamente anche per i rinviati a giudizio di Bari e di Torino.

Tuttavia, il comportamento adottato dai due schieramenti nei confronti dei rispettivi avversari sottoposti a procedimenti giudiziari è perfettamente speculare; e dimostra come esista e si riproduca una cultura comune all’una e all’altra parte politica. Una cultura tutta concentrata su una concezione sommaria e sostanzialista della giustizia.

Di conseguenza, il livello giudiziario e quello politico-morale vengono costantemente sovrapposti e confusi. Nella dimensione politica la dipendenza dagli atti della magistratura limita e deforma l’autonomia dell’azione pubblica di contestazione dell’avversario; in quella giudiziaria induce la politica ad affidarsi alla logica dell’ufficio del pubblico ministero, compromettendo il principio irrinunciabile della presunzione d’innocenza.

Il termine garantismo non piace a molti, ma esso significa né più né meno la piena applicazione dei requisiti dello Stato di diritto e in particolare il complesso di tutele assicurate al cittadino nei confronti di tutte le istituzioni dello Stato durante le diverse fasi del processo penale. In questo senso il garantismo si collega alla tradizione classica del pensiero penale liberale che pretende il massimo rispetto dei diritti di ognuno: delle vittime reali o potenziali, degli indagati e degli imputati durante il processo, dei condannati nel corso dell’esecuzione della pena. Ne discende che il principio fondante del garantismo è la sua universalità, da affermarsi nei confronti del cittadino più vulnerabile così come del potente più ricco di risorse.

Ed è qui che il garantismo settario vacilla; e quello della destra si manifesta come garantismo classista e di censo, che non si applica agli individui e agli strati economicamente svantaggiati e socialmente fragili: migranti, non garantiti, detenuti, quanti si trovano ai margini del sistema della cittadinanza.

D’altra parte, l’universalismo proprio del garantismo è guardato con sospetto anche a sinistra. Mi spiego con qualche esempio, che spero di richiamare senza il peccato mortale dell’autocompiacimento.

Nel corso della legislatura 2013-2018 fui il solo parlamentare del centrosinistra a chiedere che il voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi fosse espresso in forma segreta, così da assicurare la massima libertà di coscienza; e mi trovai in altrettanta solitudine in occasione del voto sull’allora parlamentare di Forza Italia Augusto Minzolini. In altre parole l’irresistibile tendenza, in questo caso della sinistra, era ed è quella all’utilizzo di strumenti giuridici nei confronti dei potenti per ribaltare i rapporti di forza sfavorevoli.

Un simile discorso riveste una cruciale importanza non solo all’interno del conflitto tra sinistra e destra, ma anche nelle relazioni tra i diversi soggetti dell’area progressista. Qui il tema del garantismo può tracciare un discrimine profondo tra il Pd e il Movimento 5 Stelle. Il primo non è un partito garantista (e non lo era nemmeno con la segreteria di Matteo Renzi, arrivato al garantismo solo di recente), ma al suo interno quelle istanze si ritrovano, seppure minoritarie, e si battono come possono contro tendenze opposte.

In realtà, a dividere i due partiti c’è soprattutto una diversa concezione della politica. Nel movimento di Giuseppe Conte (sempre più strutturato come un partito vero e proprio) la lotta contro il malaffare è precipitata da subito - così rivela il linguaggio utilizzato - in una tonalità retorica e moralistica, che vorrebbe ispirarsi alla lezione di Enrico Berlinguer, ma che finisce con lo stravolgerne il senso autentico.

Nell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari nel 1981, il segretario del Pci sviluppava un’analisi del ruolo sempre più onnipervasivo e pre-potente dei partiti nello Stato, nelle istituzioni e nella vita sociale; e affermava che la questione morale fa tutt’uno con l’”occupazione dello Stato” e dei “centri di potere in ogni campo”. Il processo di involuzione dei partiti, che pure mai sono stati tutti uguali e tutti ugualmente responsabili, esplode nel 1992-93. La messa sotto accusa di gran parte di essi a opera della magistratura ne determina la crisi profonda, il discredito generalizzato e, in alcuni casi, la dissoluzione. Viviamo ancora sotto gli effetti di quel terremoto. Il radicale rinnovamento dei partiti, e non la loro rimozione, resta tuttora il principale strumento per uscirne vivi.