di Cecco Bellosi*
Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2024
Il carcere è sorto per sorvegliare e punire, non per redimere. La parte rieducativa è cresciuta e si è estesa non solo per rispondere al dettato costituzionale contenuto nell’articolo 27 della Carta, ma anche per far fronte ai risultati irrimediabilmente negativi della giustizia retributiva. In questo contesto però, la giustizia trattamentale è solo, quando va bene, una riduzione del danno carcerario; quando va male, un’estensione dal carcere all’esterno. Le pene al di fuori delle mura hanno ormai poco di alternativo. Semplicemente, la strategia del controllo si è ampliata dall’interno all’esterno, andando a costituire una continuità di fatto tra sistema penitenziario e sistema assistenziale, tra carceri e centri di accoglienza.
“Giustizia di comunità” è un nome suggestivo. Richiama le comunità di vita condivisa che gestivano la giustizia senza istituzioni totali. Ve ne sono ancora alcune, sparse per il mondo: non sono soltanto residui di passato, ma anche anticipazioni di futuro. Come le esperienze del confederalismo democratico nella polveriera del Medio Oriente. Fiori nel deserto. Ma in Occidente, travolto dall’individualismo e dalle solitudini, ormai è difficile trovare tracce di comunità. Del resto, parlano i numeri a dimostrare la torsione dallo Stato sociale allo Stato penale.
Nel 1990, dopo l’ultimo provvedimento di amnistia-indulto approvato dal parlamento in occasione dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, abitavano le prigioni trentamila detenuti/e, cinquemila si trovavano in misura alternativa.
Al 31 luglio 2024, a fronte di oltre sessantamila persone imprigionate, altre 45.000 si trovavano in misura alternativa al carcere, cinquemila in libertà vigilata, undicimila in regime di sanzioni di comunità come i lavori di pubblica utilità e ventottomila in messa alla prova.
Complessivamente, un circuito esterno di novantaduemila persone che, con i detenuti/e arriva a centocinquantamila persone sottoposte all’ambito penale.
Del resto, in questi oltre trent’anni il tasso di inflazione più alto è stata quello determinato dall’accumulo di leggi criminogene.
Molte, troppe persone entrano in galera grazie a leggi carcerogene. In particolare, la Bossi-Fini che imprigiona gli immigrati che non ubbidiscono al decreto di espulsione; la Fini-Giovanardi, che pone chi si trova in tasca qualche grammo di sostanza nelle condizioni di dover dimostrare l’uso personale, facendo inoltre di ogni erba un fascio; la ex Cirielli, una legge così sconcia che il suo estensore aveva ritirato firma e nome. Negando le attenuanti generiche ai recidivi per reati di piccolo conto, contribuisce in maniera drammatica a riempire le prigioni senza dare alcuna possibilità di inserimento a chi ne ha più bisogno.
Per non parlare dei decreti legge dell’attuale governo, che criminalizzano qualsiasi forma di lotta per i diritti sociali. All’esterno del carcere, ma anche dentro. Allo stesso tempo, vengono riempiti di attenuanti i colletti bianchi, che rimangono rigorosamente fuori.
Occorre sempre distinguere tra legalità e giustizia. La legalità, in una società eticamente sana, non può essere un programma politico. Da anni l’Italia è una società malata, alla deriva in quasi tutti i suoi aspetti vitali e quindi anche sul piano etico: da qui l’idea, sbagliata, che il cambiamento debba arrivare dall’imposizione della legalità e non dalla ricostruzione del senso di giustizia. Letteralmente il concetto di legalità sta a significare rispetto della legge, ma le leggi spesso sono ingiuste, proprio come quelle sull’immigrazione o sulle droghe.
Se non si cambiano queste norme, le carceri continueranno a gonfiarsi di poveri disgraziati, ammassati e sovraffollati in celle senza niente, se non la disperazione. La povertà estrema genera illegalità forzata. Con il carcere che chiama carcere.
Nel 1986 a San Vittore stavano stipate millecinquecento persone. A quel tempo si sosteneva che la nuova casa di reclusione di Opera avrebbe risolto il problema del sovraffollamento. Di lì a poco, invece, ci sarebbero stati duemilacinquecento detenuti: mille a Opera e ancora millecinquecento a San Vittore.
Poi hanno pensato a Bollate, il carcere costituzionalmente corretto. Perché anche la Costituzione ha i suoi difetti. Intanto, il numero di detenuti è salito ancora: ben oltre mille a Opera e a Bollate, ma anche a San Vittore, nonostante la chiusura per ristrutturazione di alcuni bracci.
Anche le misure alternative però chiamano carcere, quando lo stato penale riempie i vuoti dello stato sociale. Le misure al di fuori delle mura sono diventate poco sostitutive e molto complementari: non a caso, nelle statistiche del ministero della Giustizia portano il nome di “Area penale esterna”.
L’affidamento in prova è la misura alternativa più diffusa. Va bene, anche se porta con sé due difetti: è premiale ed è classista. La premialità viene da molti attribuita alla “Legge Gozzini”, in realtà è insita nell’articolo 27 della Costituzione. La “Legge Gozzini”, all’inizio, valeva teoricamente per tutti/e. Poi, dopo il 1992, è stata stravolta diventando molto selettiva, al punto che il suo primo firmatario, il senatore Mario Gozzini, aveva detto: “Non è più la mia legge”, intendendo che tendeva a chiudere più che ad aprire il carcere per diverse categorie di detenuti/e. L’affidamento in prova è classista perché per uscire devi avere un luogo dove andare e un reddito. Ma molti detenuti/e, in un carcere diventato sempre più una discarica sociale, non hanno né l’una né l’altro.
Tra le sanzioni di comunità rientrano i lavori di pubblica utilità. Centinaia, qualche volta migliaia di ore da dedicare a diverse forme di impegno sociale. Fuori, in alternativa al carcere da subito. Senza vederlo. Lavoro che sconta la pena e prova a risarcire i danni. Sempre meglio della prigione. Il limite sta nel numero di reati previsti per questa misura e, ancora una volta, la sua caratterizzazione di classe. Se non hai casa, se non hai reddito, come fai ad accedervi? Non tutti sono Toti. Ma diciamo che va bene anche per lui.
La messa alla prova è quella che si avvicina di più alla giustizia riparativa. La sfiora, ma non ne è parte integrante. Rimane all’interno del sistema penale trattamentale. Inoltre, per essere erogata non richiede neanche di essere colpevoli. Evita il processo e può essere conveniente accedervi, anche se non si è commesso quel reato.
Come Associazione, abbiamo a che fare ogni giorno con tutte queste misure. Dal 1990 a oggi le persone sotto sorveglianza penale diretta sono quadruplicate. Immigrati e tossicodipendenti sono i due terzi della popolazione detenuta. Allo stesso tempo, stanno aumentando in maniera esponenziale le persone con problemi di sofferenza mentale.
I paria delle galere. Stanno in un angolo buio. Invisibili. Se non quando vanno fuori di testa, dentro. E fuori non sanno dove andare. Per questo nel nostro piccolo proviamo invece ad accoglierli.
Nel 2023 il Gabbiano ha ospitato centotrentanove detenuti/e nelle comunità, prevalentemente in affidamento terapeutico, o in arresti/detenzione domiciliare o, ancora, in libertà vigliata, una misura punitiva che si trascina dai tempi dell’Ordinamento Penitenziario fascista. Quindi, oggi, più che mai attuale.
Inoltre, ha accolto dieci detenute, una persona transgender e quattro detenuti negli appartamenti di housing sociale, all’interno del progetto ormai consolidato “Donne oltre le mura” e di un progetto finanziato da Cassa Ammende per dare ospitalità a persone che, non avendo un luogo dove andare, non potrebbero uscire dal carcere pur avendone i requisiti in termini di pena residua. Sono state seguite poi al Centro Diurno di Cascina Cuccagna a Milano trenta donne in misura penale esterna, di cui quindici in articolo 21 e altre 15 in affidamento territoriale o in detenzione domiciliare. Una di loro è rientrata in carcere per “motivi di sicurezza”, avendo denunciato il compagno per minacce. Come se il carcere fosse l’unico posto in cui tutelarla.
Infine, sono state accompagnate ventinove persone in percorsi di lavori di pubblica utilità o di messa alla prova.
Nel 2024, solo presso lo Spazio sociale di Ascolto e Orientamento dedicato a don Andrea Gallo nel quartiere Ponte Lambro di Milano, sono state accolte nove persone, una per svolgere lavori di pubblica utilità e otto in messa alla prova. Tra loro, due sono state condannate per partecipazione a manifestazioni politiche. Non sono state poche, negli ultimi anni, soprattutto in relazione al movimento No Tav in Val di Susa, oggetto di particolare attenzione da parte di una Procura a imprinting caselliano.
Le nove persone sono impegnate, a dire dell’attenzione alle tracce di comunità, nella “carovana salva cibo”, erede delle Brigate Volontarie per la distribuzione di generi alimentari alle famiglie bisognose durante la pandemia; nell’ambulatorio popolare di via dei Transiti e all’interno delle attività dello Spazio Sociale, tra cui la Biblioteca dei Bambini e delle Bambine, luogo di aggregazione sociale e di doposcuola per i bambini e le bambine del quartiere.
Non sempre però le sanzioni e le misure di comunità si svolgono in questa logica.
L’anno scorso, dopo averlo ospitato in comunità per alcuni mesi, abbiamo accolto uno dei giovani rapper più seguiti dai giovani in messa alla prova. Gli abbiamo proposto di confrontarsi, oltre che con persone della sua età, soprattutto con gli adulti, intesi in questo caso come educatori/trici e insegnanti, così in difficoltà nel decrittare i nuovi linguaggi. Ne è uscito un arricchimento culturale collettivo.
Quest’anno abbiamo proposto un progetto analogo per un altro rapper, ma gli è stato imposto di impegnare quelle ore, alcune centinaia, in una Residenza Sanitaria per Anziani. In un mondo a lui completamente estraneo. Così come lui a quel mondo.
Bisognerebbe capire se in queste misure debba essere prevalente l’aspetto sanzionatorio o la valorizzazione delle competenze delle persone: tutti/tutte ne hanno, nella comunità. I talenti, a volte, hanno bisogno anche di tempo per svelarsi. Da anni abbiamo in comunità una donna originaria dell’Est europeo uscita dal bosco di Rogoredo, dopo essere stata vittima di maltrattamenti e di sfruttamento. Chiusa in se stessa, a volte esplodeva in reazioni di rabbia. Poi, l’anno scorso le è stato proposto di partecipare a degli incontri di lettura. Ne ha tratto un nutrimento tale da proporsi nel gruppo di rappresentanti degli/delle ospiti all’interno della comunità. Un gruppo che al Gabbiano si chiama Spartaco. Dove gli ospiti sono persone, con tutte le loro contraddizioni, e non utenti. O pazienti.
Tornando alle misure alternative al carcere, se si vuole dare un respiro strategico, e non solo di necessità, al concetto di carcere come extrema ratio, occorre cambiare paradigma, passando dal concetto di giustizia retributiva e dal connubio tra giustizia retributiva e giustizia trattamentale o rieducativa a quello di giustizia riparativa, o meglio, restorativa, mirando concretamente a costituire delle comunità restorative. Il fuori carcere deve essere un impegno di società e territorio, non può essere lasciato solo a soluzioni tecniche. Il rischio di misure interessanti come la messa alla prova è che, senza cambio di paradigma, rientrino semplicemente nell’alveo della riduzione del danno carcerario e non nel corso di un nuovo fiume.
Più pulito.
*Comunità terapeutica “Il Gabbiano”