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di Michele Passione*

L’Unità, 15 giugno 2023

Dopo gli articoli di Pugiotto e Corleone, intervengo nel dibattito sulla giustizia riparativa. Riguarda le persone, non si occupa di accertamento del fatto di reato, ascrizione di responsabilità, pena che sono prerogative del processo penale, che va mantenuto impermeabile a ogni deriva etica Polifonia; si definisce in musica uno stile compositivo che combina due o più voci (umane o strumentali) indipendenti, su diverse altezze sonore.

È (anche) per questo che dobbiamo esser lieti del ritorno in edicola de L’Unità, capace in questi giorni (e fin da subito, rivendicandolo) di ospitare anche quelle più scomode, con buona pace di chi legittimamente ha opinioni difformi. Cacofonia; l’effetto sgradevole provocato da certi accostamenti di parole, voci o strumenti, non accordati insieme. Con queste premesse, naturalmente opinabili, riprendo qui due recenti interventi di Andrea Pugiotto e Franco Corleone, ai quali mi unisce da tempo immemorabile un profondo sentimento di amicizia ed impegno su temi politici e giuridici, ed ai quali sono grato per aver condiviso tante riflessioni e battaglie. Aggiungo dunque la mia voce, con i limiti che le sono dati, a questo scambio di opinioni in materia, questa volta in dissenso (costruttivo) rispetto alle riflessioni sopra citate.

Ma veniamo al dunque. Molto opportunamente Andrea Pugiotto ha evidenziato su queste pagine (20 maggio) che “il paradigma vittimario è cosa ben diversa dalla giustizia riparativa”, invitando non solo a presidiare il labile confi ne tra questi due mondi, ma anche quello liberale e garantista del diritto penale (un ossimoro - in accordo con le acute riflessioni di Massimo Donini - ché più opportunamente occorrerebbe parlare di garantismo penale).

E però, possiamo sin da subito chiederci dove sia l’extrema ratio del diritto penale, ciò che dovrebbe confinare nell’angolo la sua leva incapacitante (la sanzione) per far posto a soluzioni alternative ai problemi sociali e politici delle persone, superando (o almeno riducendo) quella “strana pratica, e la singolare pretesa, di richiudere per correggere” di cui parlava Foucault. Invece, ed è noto, trionfa la decretazione di urgenza, l’espansione senza fine del diritto penale totale, pronto a sanzionare qualunque condotta debitamente insufflata nel comune sentire come meritevole di punizione, per poi passare alla cassa del consenso elettorale.

È questa, purtroppo, una ricetta invalsa, della quale la destra fa largo uso attualmente, ma certamente non estranea a Governi di altro colore. Dopo aver perciò giustamente stigmatizzato “lo spettacolo del dolore”, che concede strumentalmente spazio alle vittime, sottraendolo alla giustizia sociale, osservando anche che “se tutte le vittime sono uguali, allora hanno anche identica voce in capitolo”, poco più avanti si giunge ad opposta considerazione, volta a smascherare “un uso strumentale del paradigma vittimario”, che discrimina vittime buone e meritevoli di attenzione da quelle ribelli e irregolari per definizione (le vittime cattive), i detenuti, i migranti, i transgender, finendo per mettere in discussione financo il reato di tortura (questo sì, un diritto universale, che qualche patriota vorrebbe eliminare in favore della gestazione per altri. Il figlio del peccato).

Emergono dunque due istanze contrapposte, ma per fortuna la forza del pensiero luminoso di Manlio Milani ci ricorda il bisogno di tutte le vittime di uscire dallo stigma pietrificante della vittima perenne, (ri)diventando cittadini, parte della comunità e dei suoi valori, anche mettendosi accanto a chi ha generato il conflitto, trasformando il dolore in un atto politico, e non privato. Anche per questo, non è possibile confondere il perdono con diritti (del reo) o doveri (della vittima); il perdono, questo sì, è un fatto privato, e come di recente affermato (Belpoliti) “sta fuori da ogni logica giuridica, da ogni misura, perché appartiene all’incommensurabile”.

Ma è sul perdono e sul pentimento che è tornato su queste pagine Franco Corleone (2 giugno), di nuovo denunciando il rischio per “la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale”. Cerchiamo di capire, verificando senza pregiudizi ideologici. Si sostiene che “la giustizia riparativa, prossima a venire” (ma arriveranno i decreti attuativi entro il 30 giugno? Prima gli arresti in flagranza differita, arresti senza querela, sorveglianza speciale, etc. Mica solo i rave..) “dovrebbe realizzare un mondo nuovo e una giustizia penale alternativa a quella che oggi conosciamo”.

Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai; nessuna velleità palingenetica, nessun mondo nuovo. Come unanimemente noto, la RJ è complementare - non alternativa - al diritto penale, non fosse altro perché si media all’insegna del precetto, e non suo malgrado. Riguarda le persone, la collettività; non si occupa di accertamento del fatto di reato, ascrizione di responsabilità, pena, che sono prerogative del processo penale, che va mantenuto impermeabile ad ogni deriva etica.

Chi scrive ha fatto parte della Commissione ministeriale, guidata da Adolfo Ceretti, che ha predisposto il testo in materia di giustizia riparativa confluito nel D.L.vo n.150/2022; secondo Corleone, si tratterebbe di “una distrazione di massa promossa da coloro che dovrebbero essere protagonisti della contestazione della crisi che si aggrava”. Molto sommessamente, non nutro ambizioni da pifferaio, e anche se a margine, non certo da protagonista, da trent’anni mi occupo di carcere, delle meccaniche del potere, di violenza, e anche di tortura.

Non spesso in grande compagnia. Per evitare di “dimenticare i tredici morti dell’inizio della pandemia nel carcere di Modena” non bisognerebbe inseguire “le magnifiche sorti e progressive della giustizia riparativa”, producendo “tanto rumore per nulla…mettendo in campo uno stuolo di mediatori assunti con contratti precari… invece di rafforzare gli UEPE”.

Inviterei a considerare un dato; con la disciplina di nuovo conio si rovescia l’ostatività penitenziaria, concedendo a tutti, senza limiti edittali o per titoli di reato, di accedere a percorsi (volontari) di giustizia riparativa, volti a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità. La giustizia riparativa è per tutti, ma non è da tutti, ed il precipitato della novella, che guarda anche alla concreta utopia di cui all’art.3, comma 2 Cost., non sovverte certo il cognitivismo processuale. Piuttosto, la matrice pubblicistica della RJ pone al riparo, senza rischio di ricreare lo speculare modello punitivo pubblico, dall’ingresso di logiche moralistico - redentive, o addirittura vendicative.

Non può dunque convenirsi con l’assunto secondo il quale “la dimensione del pentimento e del perdono diverranno centrali e, nel caso di reati meno gravi, susciteranno notevoli perplessità”, perfino “mettendo in imbarazzo la vittima” laddove un giudice (così equivocando il ruolo che il decreto gli affida) favorisca “la confessione”. Nulla di tutto ciò (malgrado, ad onor del vero, ci sia chi proprio non intende, ritenendo che l’esito riparativo simbolico, nella sua “forma più spettacolare, è il pentimento, consistente in un atto pubblico di contrizione”: così la relazione alla novella sul punto da parte dell’Ufficio del Massimario della Cassazione).

Giustizia è tante cose; un giusto processo, il diritto alla salute, l’affettività in carcere, la risocializzazione, anche attraverso le Case di reinserimento sociale, di cui alla felice proposta di legge di Riccardo Magi. Ma anche, senza che una cosa escluda un’altra, una giustizia trasformativa, che non assegni alla vittima un ruolo nella dosimetria della pena, ma consenta alle parti una closure che passi dal riconoscimento, e non dalla restituzione (impossibile) di ciò che si è rotto.

Per concludere, di nuovo con le parole di Massimo Donini: “chi fa di mestiere il penalista è oggi consapevole che il penale è ovunque, ha invaso ogni anfratto della nostra vita, ed è diventato - il diritto, o meglio la legge penale, non il delitto - una nuova emergenza. Non possiamo più legittimarlo. Proprio in nome dell’approccio costituzionalistico”. Bisognerebbe tenerlo a mente, pensando a qualcosa di meglio della pena retributiva; su questo, ne sono certo, io e i miei Amici la pensiamo allo stesso modo.

*Avvocato del Foro di Firenze