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di Antonio Polito


Corriere del Mezzogiorno, 22 settembre 2019

 

Confesso che ho tirato un sospiro di sollievo l'altro giorno, quando la corte d'Appello di Napoli ha confermato la condanna a sedici anni e mezzo per i tre giovani che presero a sprangate, alle spalle, fino a ridurlo in fin di vita, la guardia giurata Francesco Della Corte, davanti alla stazione della metropolitana di Piscinola, con l'agghiacciante movente di divertirsi un po' e di rubargli la pistola.

Non perché io partecipi al clima giustizialista e incarognito di questi anni, in cui per primi i politici, e talvolta anche i ministri, hanno usato con disinvoltura l'orribile espressione "buttare la chiave". Quasi che i condannati, i colpevoli anche dei peggiori delitti, siano bestie da chiudere in gabbia vita natural durante. Ma perché questo era un davvero un caso speciale.

La Corte d'Appello minorile che ha emesso la sentenza è infatti la stessa che aveva concesso nei mesi passati alcuni permessi a uno dei tre giovanissimi assassini, Ciro U., che nel frattempo ha compiuto i 18 anni. Proprio per festeggiare il raggiungimento della maggiore età gli era stato consentito di organizzare una piccola festa in una canonica all'esterno del carcere di Airola, dove è detenuto, e le foto della sua allegria durante il party, postate in rete da una cugina, avevano profondamente offeso la famiglia della vittima. È stata Marta, la figlia, a manifestare il proprio dolore pubblicamente. Quando poi si è saputo che i magistrati avevano consentito a Ciro di fare anche un provino di calcio per una squadra del beneventano e di incontrare i genitori al ristorante, la famiglia Della Corte ha di nuovo alzato la voce, chiedendosi quale sia il confine tra la riabilitazione e il ridicolo: "Esce dal carcere per fare il calciatore?".

Avremmo voluto scrivere, in quell'occasione, una lettera aperta a Marta Della Corte, per dirle che rispettavamo il suo dolore, ma anche il dovere dei giudici, una volta accertatene le condizioni, di favorire la riabilitazione e il recupero del condannato (soprattutto quando si tratta di una persona così giovane da aver commesso il suo orrendo delitto nella minore età) anche con permessi e uscite, da svolgersi ovviamente sotto scorta e sotto controllo, per evitare il rischio elevato di fuga.

Poi però ci eravamo fermati. Non avevamo avuto il cuore di ricordare a una ragazza che ha perso per sempre un padre nel modo più brutale e insensato doveri che non spettano a lei, che ha tutto il diritto al dolore e alla rabbia, ma alla società. Anche perché, se un permesso per il compleanno del detenuto andava rilasciato, si sarebbe però dovuto fare in modo che quella libertà temporanea e l'euforia che l'accompagnava non fossero esibiti sui social, per non offendere i famigliari della vittima, che chissà per quanto tempo ancora non festeggeranno alcunché.

D'altra parte, siamo stati frenati anche dal fatto che la famiglia Della Corte con tutta evidenza non partecipa della cultura del "metteteli dentro e buttate la chiave". La sua sensibilità verso il problema sociale della delinquenza giovanile è anzi provata dal fatto che dopo il delitto si è subito impegnata ad organizzare una associazione dedicata al padre, "Progetto Franco", che si propone proprio di prevenire e aiutare i ragazzi che rischiano di finire nel girone infernale della violenza; per esempio evitando, come è avvenuto in questo caso, che scuola e servizi sociali non si accorgano della prolungata evasione scolastica di tre ragazzi che poi finiscono con l'uccidere.

Ecco perché, allora, abbiamo taciuto. Ma ora questa sentenza che conferma la condanna di primo grado, la severità con cui il sostituto procuratore generale Anna Grillo ha chiesto agli imputati quella assunzione di responsabilità che finora non pare esserci stata, così come è mancato alcun segno di sincero pentimento, ebbene, questa faccia della giustizia, giusta, severa e senza sconti, ci consente di ricordare però anche l'altra faccia che la giustizia deve avere, quella della clemenza, del rispetto della dignità umana anche nel peggiore dei delinquenti, quella della ricerca costante della rieducazione, che richiede anche, per ragazzi così giovani, la possibilità di mantenere qualche contatto con la vita fuori dal carcere, non fosse altro per ricordare loro che è troppo bella per privarsene. Nessuna sentenza può restituire Franco ai suoi cari, ha giustamente detto la figlia. Proprio per questo nessuna vera giustizia può essere fondata sulla logica del dente per dente.