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di Michele Ainis

La Repubblica, 27 luglio 2023

Mattarella parla con i gesti, con messaggi che vanno interpretati. È la soluzione meno invasiva. Purché l’interprete abbia orecchie per udire. C’è un tratto specifico, un elemento distintivo, nel modo con cui il presidente Mattarella esercita il suo ruolo di garante. La vicenda che circonda l’abuso d’ufficio ne è un esempio - soltanto l’ultimo, in ordine di tempo.

Occorre domandarsi, tuttavia, se e quanto il suo stile venga percepito: dall’opinione pubblica, ma soprattutto dai partiti, dai leader politici, dai ministri di questo governo. Giacché l’incomprensione può ben essere foriera di conflitti, come avviene fra le coppie in crisi, quando ciascuno rimane sordo alle ragioni altrui. E c’è invece bisogno d’ascoltarsi, o meglio d’ascoltarlo, per risparmiare traumi alle nostre istituzioni.

L’abuso d’ufficio, quindi. Reato “evanescente”, Nordio dixit; sicché il 15 giugno il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge che ne dispone la cancellazione. Destando immediatamente le proteste dell’Associazione nazionale magistrati, dell’Autorità Anticorruzione, dei partiti d’opposizione; e l’altolà della Commissione europea. Anche perché il ddl non si limita a correggere il reato, restringendone l’applicazione a casi tassativi, come vuole la Costituzione: no, lo azzera, e lascia perciò senza castigo le marachelle dei colletti bianchi.

Ma si tratta, per l’appunto, d’un disegno di legge, non di un decreto fin da subito efficace. Dunque la parola tocca al Parlamento, che potrà respingerlo, approvarlo, oppure modificarne qualche aspetto. E prima del Parlamento tocca al capo dello Stato.

Qui entra in campo, difatti, l’articolo 87 della Carta costituzionale, che ne enumera le attribuzioni. Fra queste, il potere d’autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge governativi. Un potere disarmato, tuttavia, come si legge in tutti i manuali di diritto: se anche il presidente rifiutasse la firma, l’esecutivo avrebbe gioco facile a far proporre il medesimo testo da un qualunque parlamentare della propria maggioranza, e in quel caso non servono autorizzazioni. Semmai il capo dello Stato potrà opporsi alla promulgazione della legge, se e quando quest’ultima verrà approvata dalle Camere. Allora sì, il niet presidenziale dispiegherà a pieno i suoi effetti. Ma nella fase dell’iniziativa legislativa il controllo che spetta al Quirinale è più apparente che reale, e infatti i presidenti firmano sempre, in quattro e quattr’otto, i disegni di legge del governo.

L’ha fatto pure Mattarella, il 19 luglio scorso: quindi oltre un mese dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri, a 35 giorni di distanza. Un ritardo, a quanto pare, senza precedenti. Significa che il nostro presidente si è impigrito? No, vuol dire che quel testo non gli piace, e ha inteso farcelo sapere. È il suo modo indiretto - potremmo definirlo “laterale” - d’esercitare la propria moral suasion, il potere invisibile di cui nell’Ottocento parlava Walter Bagehot. E quest’ultimo episodio ne offre l’ennesima conferma.

Così, il 26 maggio la presidente Meloni, parlando in una piazza di Catania, definisce le tasse ai commercianti un “pizzo di Stato”; e il 19 giugno il ministro Nordio le fa eco. Ma il giorno dopo Mattarella incontra i vertici della Guardia di finanza, e ne approfitta per ricordare che la giustizia fiscale s’iscrive tra i principi fondamentali della Costituzione. Nessuna polemica diretta col governo, però parole chiare, inequivocabili, precise.

Come il suo gesto, anzi il segnale, del 13 luglio: una nota di Palazzo Chigi attacca i magistrati per i casi Santanché e Delmastro, e lui convoca a sorpresa la prima presidente e il Pg della Cassazione, comunicando ufficialmente la riunione. “Parlare a nuora perché suocera intenda”, recita un vecchio detto. È la cifra di Sergio Mattarella, e d’altronde ciascun presidente ne esprime una del tutto personale. Giacché il Quirinale è un’astrazione, tratteggiata in nove succinti articoli della nostra Carta, che non sono mai stati corretti in settantacinque anni d’esperienza. Ma i presidenti, viceversa, sono persone in carne ed ossa, e ognuno ha il suo temperamento. Napolitano esercitava la propria moral suasion parlando a voce alta, attraverso appelli, moniti, rampogne. Ciampi parlava a bassa voce, negoziando in privato col governo per correggere i suoi provvedimenti. Mattarella invece parla con i gesti, con messaggi che vanno sempre interpretati. È la soluzione meno invasiva, meno dirompente. Purché l’interprete abbia orecchie per udire.