sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Goffredo Buccini

Corriere della Sera, 9 gennaio 2024

Il rischio per l’Italia è uno scontro a bassa intensità, fatto di contrapposte culture del sospetto. A guardarla senza paraocchi di fazione questa non è una storia di buoni o cattivi. Nella torsione del rapporto tra politica e giustizia che da un pezzo tiene in ostaggio l’Italia ci sono solo cause ed effetti. In una democrazia un tempo immatura e bloccata da ragioni geopolitiche (la nostra posizione nella Guerra fredda, il timore di cambiare sistema cambiando opzione di voto) si è determinata nel volgere di qualche decennio un’alterazione del legame tra eletti ed elettori. E non solo per l’ovvia ragione che un governante, ove sia sicuro di non essere mandato a casa, finirà per governare peggio.

A febbraio del ‘93, giusto un anno dopo l’inizio di Mani pulite, Saverio Vertone osservava sul Corriere che “per trattenere le anime dei votanti al di qua della cortina di ferro bisognava concedere ai corpi più di quanto consentissero le risorse del Paese” dunque “si è dato a tutti ciò che non c’era” e, in sostanza, “il Paese è rimasto in Occidente, dal punto di vista strategico e militare, solo a patto di passare in Oriente sul terreno culturale e in parte economico”. Ciò spiegava come mai, imploso il comunismo, le macerie del Muro di Berlino avessero travolto una sola grande nazione occidentale, la nostra: la più permeata di assistenzialismo, di economia di Stato e, infine, la più afflitta dal debito pubblico. Verrebbe da dire: la più “sovietica”. Smantellata l’impalcatura con le inchieste sulla corruzione, il crollo del palazzo è derivato quale conseguenza. Mani pulite non fu un golpe dei magistrati, fu il suicidio di partiti ridotti a barzelletta da bar e di un’economia di cartello che, protetta contro la concorrenza dalla regola delle tangenti, non teneva il passo con Maastricht: l’epilogo traumatico di una modernizzazione mancata.

Da allora, tuttavia, l’esondazione della magistratura è avvenuta sotto i nostri occhi: e non per una particolare propensione eversiva delle toghe, ma per un banale principio fisico che nel rapporto tra poteri determina l’occupazione dello spazio vuoto. Dove la politica s’è ritratta, la magistratura, chiamata a una funzione legittimante da leader e partiti a corto di credibilità, s’è allargata. Il ministro Nordio, nei suoi lavori da saggista, ha parlato così di autodafé della politica, evidenziandone la ritirata precipitosa sotto l’incalzare del giacobinismo di piazza, con l’infelice riforma dell’immunità parlamentare (nobile istituto, in verità assai abusato al tramonto della Prima Repubblica per salvare anche numerosi malfattori). Sta di fatto che, senza lo scudo offerto dall’articolo 68 della Costituzione a deputati e senatori contro inchieste arbitrarie o infondate, le Procure sono diventate titolari di vita e di morte dei politici con quel meccanismo di naming and shaming descritto da Sabino Cassese nel suo “Il governo dei giudici”(edito da Laterza), il discredito mediatico: riflettori accesi sugli albori dell’indagine, poco importa se poi si finirà davvero a processo e quale sarà l’eventuale sentenza, la reputazione dell’indagato sarà minata.

Tuttavia, poiché ogni scorpacciata di potere provoca spiacevoli effetti collaterali, taluni pubblici ministeri (spesso i più esposti) hanno contratto le malattie della politica che pretendevano di curare col Codice penale, il correntismo ne è diventato il sintomo virulento, lo scandalo del Csm nell’era di Palamara l’ultima vistosa prova. In mezzo, il braccio di ferro tra Berlusconi e Procure mutato quasi in genere pop, causa di disorientamento per tanti italiani (come dimostrato dall’astensionismo crescente) e non privo di risvolti inquietanti: in proposito un giurista rispettato da tutti quale Giovanni Fiandaca ha notato che la caccia pluridecennale a presunte responsabilità di Berlusconi nella stagione delle stragi di mafia, resa pubblica più volte sui media senza robusti riscontri, abbia nociuto non solo all’allora premier dell’Italia ma alla credibilità delle istituzioni tutte e in generale al clima democratico nel Paese.

Il rischio da scongiurare, concluso il tempo del Cavaliere, è il seguito d’uno scontro a bassa intensità, fatto di contrapposte culture del sospetto. Incontrando lo scorso giugno i giovani magistrati in tirocinio, il presidente Mattarella è tornato a battere su un tasto: l’idea che chi indossa la toga debba non solo essere imparziale, ma apparire tale. “L’imparzialità della decisione va tutelata”, ha spiegato, “anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte”. Può intuirsi in filigrana la fatica d’una stagione che per i magistrati è stata segnata da protagonismi apparsi, talvolta, orientati a condizionare le scelte politiche. La politica ha del resto un solo modo vincente per rispondere: osservare con scrupolo - come non è sempre avvenuto - l’articolo 54 della Costituzione, che prescrive disciplina e onore nell’esercizio delle funzioni pubbliche, smettendo di chiedere alla magistratura supplenze o patenti di legittimazione. Non è un equilibrio facile da trovare, dopo decenni di presentismo giudiziario che ci hanno convinti si debba sceverare tutto e subito (poco importa quanta verità sia contenuta in quel tutto) e, dall’altro lato, di intromissioni lobbiste nella gestione della cosa pubblica.

Sarà pure un po’ naif, ma non è così fuori luogo, forse, l’idea di un tavolo della pace lanciata, tra molte ironie, dal ministro Crosetto. Se ne decidano forme e denominazione, ma l’Italia non potrà mai ripartire se non si sblocca un meccanismo che finisce per rendere precari appalti e contratti, consenso elettorale e stabilità degli esecutivi e che getta nel tritacarne terzi estranei o casualmente presi sulla linea di tiro. Si tratta di convincersi d’una evidenza: non esistono golpisti in toga come non esistono politici ansiosi di soggiogare le toghe. Riconoscendosi in un comune destino che peserà sui nostri figli: meritevoli, domani, di vivere in un Paese dove non rischino guerre di religione a ogni stormir di verbale.