sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Giuseppe Salvaggiulo

La Stampa, 1 ottobre 2023

“Non siamo esecutori della volontà del governo. Noi rispondiamo solo alla Costituzione”. “Se ne facciano una ragione - sospira Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, dopo aver letto le furiose reazioni governative ai primi provvedimenti giudiziari che vanificano il decreto immigrazione. Noi non siamo funzionari esecutori della volontà dell’esecutivo, ma giudici che rispondono alla Costituzione. I diritti, e soprattutto la libertà personale, non si cancellano a colpi di maggioranza”.

Al congresso palermitano di Area, la principale corrente progressista della magistratura, doveva essere ed è stato il giorno delle star della politica, dal ministro della giustizia Carlo Nordio ai leader dell’opposizione Giuseppe Conte ed Elly Schlein. Ma la vera protagonista, alla fine, è risultata l’ignota giudice catanese Iolanda Apostolico.

Non perché presente, né in quanto “toga rossa” (non risulta in alcun modo colorata). Ma perché le sue ordinanze - oggettivamente, al di là delle intenzioni - sono state catapultate nel dibattito politico come primo atto di quella “resistenza alla tirannia della maggioranza e difesa dell’indipendenza della giurisdizione” che è il fulcro del congresso.

E così una giornata aperta dal ministro Nordio citando De Gasperi alla conferenza di Parigi del 1946 (“Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”) si chiude con l’invocazione del mugnaio di Bertold Brecht: “C’è un giudice a Berlino, anzi a Catania”. A pronunciarla Ciccio Zaccaro, ex componente del Csm e segretario in pectore della corrente. Che denuncia l’ipocrisia di un governo che “tutela la riservatezza di chi è sottoposto a un’indagine e se ne frega della libertà di un migrante che chiede protezione”, rivendicando perciò “il dovere per i giudici di farsene carico anche se la maggioranza non è d’accordo”.

Vista da qui, l’ira del governo contro la giudice catanese è comprensibile. Alcuni magistrati impegnati nelle sezioni civili che decidono i ricorsi dei richiedenti asilo hanno tracciato il quadro dei recenti interventi del governo (decreto Cutro, decreto Lampedusa) alla luce delle norme europee e internazionali. La collisione è inevitabile, e il caso Catania è solo l’antipasto.

Spiegano che il governo ha voluto imporre una stretta estendendo la procedura accelerata di respingimento oltre i casi per cui era prevista in origine, ovvero le richieste di asilo strumentali in prossimità della frontiera. La norma si basa su una lista di “Paesi sicuri” individuata dallo stesso governo, per consentire di detenere negli hotspot (come Pozzallo) o nei Centri di permanenza i migranti che da lì provengono.

“Ma alla prima prova di convalida giudiziaria, il meccanismo è saltato”. Altre pronunce seguiranno nei prossimi giorni. Poi, quando le richieste di asilo saranno decise (e presumibilmente bocciate) dalle commissioni prefettizie, i giudici dovranno valutare la credibilità della lista governativa dei “Paesi sicuri”. Tra cui il governo ha inserito, per esempio, la disastrata Tunisia sotto il giogo di Saied. Per non dire della Nigeria, definita al contrario “Paese insicuro” dall’Agenzia europea sul diritto di asilo.

Dunque mentre Nordio predicava la necessità di “attuare il mandato popolare” e intimava ai magistrati di non invadere il campo della politica, una giudice disapplicava un decreto del governo considerandolo contrario al diritto europeo. E dal congresso delle toghe progressiste si levava un coro di rifiuto di una concezione del giudice come “passacarte”.

“Noi non partecipano all’indirizzo politico e governativo, facciamo giurisdizione - argomenta Santalucia -. È fisiologico che ci possano essere provvedimenti dei giudici che vanno contro alcuni progetti e programmi di governo. E questo non deve essere vissuto come una interferenza, questa è la democrazia”.

Molto atteso nella “tana del lupo” (visita accuratamente preparata dagli sherpa), Nordio è stato abile a evitare i temi più spinosi, dall’abuso di ufficio alla separazione delle carriere. Ha parlato venti minuti e poi è andato via, senza nemmeno incrociarsi con Conte e Schlein.

I quali, invece, si sono fermati un paio d’ore, ascoltandosi reciprocamente e ascoltando alcuni interventi dei magistrati. Non li hanno fatti sedere vicini, e così sono apparsi “perfetti sconosciuti”, salvo una stretta di mano finale. La “collaborazione competitiva” si è manifestata negli interventi: entrambi contrari alle riforme del governo, stigmatizzandone con medesime parole la “postura punitiva nei confronti della magistratura”, ma con impostazioni radicalmente diverse.

Conte ha rivendicato le riforme dei suoi governi (anche quello gialloverde) in una logica schiettamente legalitaria, contestando l’abrogazione della legge Bonafede sulla prescrizione come “uno schiaffo alle vittime dei reati”. Nessun cenno al tema dell’immigrazione. Schlein ha detto “qualcosa di sinistra”, legando la questione giustizia al “disagio sociale che non può essere affrontato solo in chiave repressiva”. Ha parlato di sanità, diritti civili, femminicidi e del decreto Cutro, denunciando “l’ossessione del governo per l’immigrazione e la compressione del diritto di asilo come nelle democrazie illiberali”.

Elly ha conquistato i giudici progressisti, che l’hanno più volte interrotta con applausi e all’uscita fermata per complimentarsi. E lei, che al momento dell’invito aveva a lungo titubato, ne è uscita confortata.