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di Giuseppe Salvaggiulo

La Stampa, 15 luglio 2023

L’avviso del Quirinale alla premier. Il richiamo al precedente del 2017, l’unica volta in cui Mattarella rinviò una legge alle Camere. Se non sarà modificata, la norma del ddl Nordio che abroga l’abuso di ufficio è destinata a essere bocciata dal presidente della Repubblica, nel momento in cui sarà chiamato a firmare la legge per farla entrare in vigore. La strada tracciata dal capo dello Stato nel colloquio riservato davanti alla Vetrata è ora chiara alla presidente del Consiglio.

L’ipotesi che il Quirinale rifiuti l’autorizzazione alla presentazione in Parlamento del disegno di legge sulla giustizia è frutto di analfabetismo costituzionale. L’atto è dovuto, un tagliando di regolarità formale. Ma serve a mettere il Quirinale a conoscenza del contenuto delle iniziative del governo, in modo da poter esercitare le sue prerogative, anche informali. Cosa che Sergio Mattarella ha fatto nel vis-à-vis con Giorgia Meloni.

Il presidente della Repubblica ha spostato la palla sul ben più penetrante controllo in sede di promulgazione di una legge che ha compiuto tutto l’iter parlamentare. La Costituzione contempla la possibilità per il capo dello Stato di richiedere un riesame da parte del Parlamento, con messaggio motivato. Fu Luigi Einaudi, nel 1949, a inaugurarlo.

Da allora i casi di rinvio sono stati una sessantina. Qualcuno per dissenso nel merito, la maggior parte per dubbi di costituzionalità. Il record è di Cossiga che rinviò 22 leggi, di cui 15 negli ultimi due anni da “picconatore”. Ciampi prese di petto il conflitto di interessi di Berlusconi, rinviando la legge Gasparri sul sistema televisivo.

Mattarella è molto sensibile alle manifestazioni disfunzionali degli altri poteri costituzionali. Il 24 febbraio si è fatto sentire sulla legge di conversione del decreto milleproroghe, gonfiata dal Parlamento con 205 misure dalle originarie 149. Non potendo rifiutare la promulgazione (il decreto era in vigore da quasi due mesi), Mattarella ha accompagnato la firma con una lettera in cui richiama all’ordine governo e parlamento.

Come il predecessore Napolitano, Mattarella è stato parco nel rinvio di leggi alle Camere. Anche perché ormai le leggi derivano quasi esclusivamente da decreti, su cui è più utile far valere le stesse ragioni nella moral suasion con il governo. Durante la cerimonia del ventaglio del 30 luglio 2015, sei mesi dopo l’elezione, Mattarella annunciò la sua interpretazione del potere di rinvio, riservandosi di usarlo “soltanto quando riscontri una chiara violazione della Costituzione, un chiaro contrasto con la Costituzione”.

Due anni dopo, ricevendo alcune scolaresche al Quirinale, precisò: “C’è un caso in cui posso, anzi devo non firmare: quando arrivano leggi che contrastano palesemente, in maniera chiara, con la Costituzione”. Era il 26 ottobre 2017. Al giorno successivo risale l’unico caso di mancata promulgazione di una legge nel corso della sua (doppia) presidenza. Mattarella rinviò alle Camere la legge “per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”.

Questo precedente è stato esplicitamente richiamato alla premier Meloni. Allora Mattarella motivò il rinvio adducendo in particolare “evidenti profili di illegittimità costituzionale” in riferimento all’articolo 117 della Costituzione, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. La norma che prevedeva solo una sanzione amministrativa per chi finanzia la produzione di quelle armi violava le convenzioni di Oslo e di Ottawa, che impongono sanzioni penali.

Anche oggi è il rispetto del diritto europeo e dei trattati internazionali il problema squadernato sotto gli occhi della premier. Nel caso del ddl Nordio, il faro è acceso sulla norma che cancella il reato di abuso di ufficio. La questione era già stata sollevata un paio di mesi fa nelle audizioni parlamentari da numerosi giuristi. L’Italia aderisce con altri 188 Paesi alla convenzione Onu di Merida contro la corruzione, che all’articolo 19 impone di “conferire carattere di illecito penale al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della propria posizione al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità”. Una fattispecie corrispondente all’abuso di ufficio.

C’è di più. All’inizio di maggio la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva per uniformare e rafforzare le misure anti corruzione, come reazione al Qatargate. L’abuso di ufficio, assieme al traffico di influenze, è esplicitamente citato tra i reati da contrastare. L’articolo 11 della proposta di direttiva recita: “Questa disposizione definisce l’abuso di ufficio nei settori pubblico e privato e stabilisce che questa condotta o l’inazione sia punibile come reato se intenzionale”.

Prima di redigere il suo testo, la commissione Ue ha interpellato gli Stati membri. Hanno risposto 25 su 27. Tutti hanno detto che l’abuso di ufficio è già previsto come reato, pur con diverse formulazioni. Anche il governo Meloni ha risposto a Bruxelles in questo senso. Salvo proporre di abolirlo con il ddl Nordio. Qualche settimana dopo.